Gocce di sudore freddo mi imperlano la fronte, ho i muscoli tesi come un corridore ai blocchi di partenza. Tengo la ventiquattrore sulle ginocchia con una mano mentre con l’altra stringo il bracciolo del sedile così forte che la pelle sulle nocche diventa bianca. La luce rossa delle cinture di sicurezza si spegne, scatto in piedi come una molla e corro in fretta verso la porta dell’aereo fregandomene della valigetta che va a sbattere contro qualche faccia, gamba o braccio di chi è ancora seduto. Sento distintamente la scia di insulti che lascio al mio passaggio.
“Dovrebbe rimanere seduto finché l’aereo…” prova a dire la hostess, “Ma vaffanculo” le dico senza nemmeno lasciarla finire e passo oltre, verso la porta, verso la salvezza. Lei mi poggia la mano sulla spalla, mi giro di scatto, “Non mi tocchi mai più!” le grido in faccia mentre punto il dito verso il suo naso. Lei si ritrae e mi guarda, io la guardo. Rimaniamo un istante a odiarci poi si sente bussare all’oblò della porta e la tizia scatta per andare ad aprire e io fuggo fuori da quel maledetto cilindro con le ali.
Non mi piace prendere l’aereo, odio volare e chi cerca di farmi pensare il contrario. Noi esseri umani siamo fatti per stare con i piedi per terra, altrimenti avremmo un bel paio d’ali in dotazione.
È mezzanotte siamo atterrati con due ore di ritardo, fortuna che ho solo la ventiquattrore altrimenti avrei dovuto aspettare un’eternità al ritiro bagagli. Mi affretto, ho bisogno del bagno, se non ne trovo uno subito rischio di pisciarmi nei pantaloni.
Il terminal è stranamente vuoto e silenzioso, finalmente trovo la toilette, silenziosa, pulita e con rassicuranti file di porte e lavandini. Non importa quanto la mia vescica gridi pietà, il rito vuole che io mi lavi le mani prima e dopo essere andato in bagno, soprattutto quando viaggio. Schiaccio il pulsante del sapone, vuoto. Provo quello del lavandino di fianco, vuoto anche quello. Mi sposto ancora e mi blocco perché sul tasto del dispenser ci sono delle impronte rosse. Qualcuno ha cercato di lavarsi le mani sporche di sangue sporcando tutto. Schifato mi sposto ancora e stavolta è quella buona, mi lavo le mani ed entro lanciato nella porta del bagno come se ne valesse della mia vita.
Un gemito di piacere mi esce d’istinto mentre diminuisce la pressione della vescica. Le paratie tra un bagno ed un altro sono sollevate da terra, questo mi permette di percepire la presenza di qualcuno che sta nel bagno di fianco al mio. Avrà sentito tutto, penso mentre arrossisco. Poi sento distintamente un gorgoglio poi un rantolo strozzato e un rumore sordo di corpo che cade. Una macchia di denso sangue si allarga da sotto la paratia fino ad arrivare ai miei piedi. Salto dallo spavento pisciandomi sui pantaloni mentre rimetto dentro l’uccello. Il mio bisogno non è più la priorità.
Apro la porta ed esco, mi fermo un secondo davanti la porta del bagno affianco al mio, non oso aprire per paura di quello che troverò. Il bollino sulla maniglia è verde, vuol dire che non è chiuso a chiave. Le tempie mi battono forte e l’adrenalina pompata nel sangue rallenta tutte le mie percezioni. Non posso più esitare, apro la porta del bagno di scatto e vedo l’apoteosi degli spruzzi di sangue sulle pareti. Mi viene in mente Pollock ma mi passa di mente subito quando abbasso lo sguardo a terra e vedo un tizio riverso a pancia in giù con la faccia nel suo stesso sangue. È morto, non ci sono dubbi, nessuno rimane vivo quando tutto il sangue che hai in corpo sta sulle pareti di un bagno pubblico.
“Devo chiedere aiuto.” dico, pensando ad alta voce. Corro fuori dai bagni guardando in tutte le direzioni, nessuno in vista, il terminal è completamente vuoto. “Guardie!” comincio a gridare mentre corro in direzione dell’uscita ma a metà strada mi blocco. Col cadavere non c’è nessuno, e non mi va di lasciare quella scena con le telecamere a circuito chiuso che hanno ripreso i miei movimenti per entrare ed uscire dal bagno. Potrei essere incriminato se lascio tutto così com’è e scappo. Quindi torno indietro mentre cerco i numeri d’emergenza sul sito dell’aeroporto. Mentre cammino con gli occhi sul telefono percepisco dei passi dietro di me ma quando mi giro non c’è nessuno. Possibile che non ci sia un cazzo di nessuno dentro questo aeroporto di merda? Penso mentre cerco ancora sul telefono. D’istinto guardo l’orologio che segna mezzanotte, com’è possibile era mezzanotte un quarto d’ora fa. Sento ancora i passi, stavolta mi giro senza fermarmi e vedo un’ombra che si nasconde di scatto dietro una colonna del corridoio che sto percorrendo. Era qualcuno che non ho riconosciuto ma ho visto distintamente che stringeva in mano un qualcosa di luccicante. Quella era una lama cazzo, penso mentre comincio a correre in direzione del bagno da dove sono fuggito. I passi si affrettano dietro di me, mi sta correndo dietro il bastardo. È sempre più vicino ho il suo fiato sul collo, entro nel bagno e il cadavere non c’è più, e neanche il sangue. Non è possibile che sia un’altro bagno, è l’unico in questa parte di terminal. Mentre sono paralizzato da questo cortocircuito mentale il tizio che mi seguiva mi spinge con forza nel bagno, mi giro di scatto e vedo il coltello che solleva sopra la testa e che ha tutta l’intenzione di piantarmi nel petto. “Col cazzo” gli grido contro e afferro il polso prima che scagli il colpo. Poi lo guardo in faccia e rimango basito per quello che vedo di fronte a me. Stranamente la cosa non mi blocca,anzi, mi spinge a reagire con rinnovata veemenza scatenando una colluttazione, di quelle che si vedono nei film d’azione. Anni di arti marziali danno i loro frutti, afferro con più forza il braccio che tiene il coltello mentre con l’altra mano gli sferro un colpo nell’incavo del gomito, il suo braccio cede di schianto piegandosi e proiettando la lama del coltello dritto nel suo petto. Mentre cade sulle ginocchia gli strappo il coltello dal petto, mi porto alle sue spalle e con un movimento fulmineo gli apro una bocca supplementare sotto al mento, uno squarcio rosso che va da un orecchio all’altro. Il sangue schizza ovunque ridipingendo il bagno.
A quel punto sento un annuncio, sta arrivando un volo. Prendo in mano la situazione, non so se è morto ma devo fuggire, il più lontano possibile e prima che si accorgano dell’accaduto. Ho le mani sporche di sangue, quindi mi proietto verso i lavandini, svuoto un dispenser del sapone facendo attenzione a spingere il pulsante con il gomito per non sporcare tutto di sangue. Non basta, sono ancora sporco, allora svuoto anche l’altro dispenser di fianco. Niente, ancora sporco. Mi devo sbrigare sta arrivando qualcuno. Senza fare attenzione spingo il tasto del dispenser e lascio delle impronte di sangue sul tasto ma stavolta ho tolto quasi tutto il sangue e scappo via giusto in tempo per vedere il primo passeggero girare l’angolo del corridoio in cerca del bagno. Non mi ha visto ma io l’ho visto bene. Cazzo, ero io quel passeggero. È tutto troppo assurdo, la polizia non mi crederà mai. Guardo l’orologio che segna mezzanotte e dieci minuti. Ho tempo prima che mi vengano a prendere in aeroporto. Non può uscire vivo di qui o finiremo tutti nei guai.
Nelle mani stringo ancora il coltello, il resto è storia.