C’era una volta il reame di Pervinca, un piccolo e prospero regno nato sulle rive del grande fiume Armino. L’Armino scorreva limpido giù dalle montagne e le sue acque impetuose erano piene di pesci e rendevano fertile la valle.

La gente era felice a Pervinca e dal re all’ultimo dei garzoni tutti avevano di che sfamarsi e festeggiare quando arrivava la domenica.

Un giorno però, un ombra si allungò sul regno.

Un morbo trasformava le persone in grandi pietre verdi.

In poche ore chi lo contraeva mutava diventando color smeraldo e infine fossilizzandosi.

Panico.

Il virus dilagava e nessuno tra cerusici, ciarlatani o sacerdoti aveva soluzioni efficaci da offrire. Le persone si infettavano a colpi di interi nuclei famigliari finché, nel giro di poche ore, erano rimaste sane poche decine di persone.

Solo una servetta, dopo che la cuoca del re era mutata dopo aver essersi dissetata al pozzo, intuì che la malattia colpiva attraverso l’acqua potabile.

Re Gustavo fece fare tutte le verifiche necessarie e divenne chiaro che era lo stesso fiume Armino ad essere tossico.

Decretò allora che si bevesse solo acqua piovana, si assicurò che le fonti inadeguate fossero segnalate e l’accesso al fiume impedito dalle guardie reali. Il monarca fece inoltre confiscare gli animali da latte e razionare tutte le riserve di alcolici del regno, garantendo così la sopravvivenza a tutti i sudditi rimasti.

La geniale servetta era una ragazzina semplice, serviva in cucina, per lei il massimo della gioia era rubacchiare qualche dolce alla cannella tra quelli che preparati per la tavola reale.

Il suo più grande rammarico invece era quello di non poter imparare più cose di quelle che, con molta parsimonia, le insegnava la cuoca.

Nessuno avrebbe quindi mai sospettato l’importanza del suo intuito e nella sua umiltà lei stessa decise di informare il re tramite una ancella della regina, pregandola di non fare il suo nome.

Re Gustavo nel frattempo continuava a convocare guaritori e uomini di scienza, tutti quelli che i messi riuscivano a contattare.

Infine giunse entrando da una finestra il mago dal bosco dell’Orso, a bordo del suo barile volante. Il bosco dell’Orso era quella parte di foresta selvaggia che si raggiungeva procedendo dal borgo lungo il fiume Armino, salendo a nord, verso le montagne. Il vecchio smontò dalla botte rossa con un orso dipinto sul coperchio e si scrollò di dosso la polvere. Pattuito il compenso per la consulenza disse: “Mmmhh brutto affare, questa è opera di un drago verde”, grattandosi il cappello a punta.

“C’è un drago che avvelena la vostra acqua con le sue scaglie: trovatelo e avrete trovato la fonte del morbo”.

Il re pagò il mago con due casse d’oro subito e due a diagnosi verificata, come pattuito. Il malcontento fu celato a stento dalla corte ma il mago risalì ridacchiando a bordo del suo barile con un piccolo forziere assicurato su ogni lato e se ne tornò nel bosco dell’Orso volando fuori dalla finestra attraverso una complicata manovra, dato l’ingombro raggiunto.

Sparito il costoso mago all’orizzonte, i nobili puntarono lo sguardo su Messere Adalberto della Collina, il più valente cavaliere del regno, anche perché ultimo rimasto operativo.

“Ebbene”, disse Re Gustavo, “quale migliore occasione per onorare il vostro voto? Orsù partite immediatamente per la caccia e tornate con la testa del mostro!”.

Messere Adalberto annuì, “C’é solo un problema però. Non posso partire solo. Il mio scudiero due giorni fa si è pietrificato, ho bisogno di qualcuno che mi accompagni”.

“Vengo io!” disse la servetta facendo un passo avanti. I nobili e tutti gli astanti rimasero muti, immobili, cercando di sembrare invisibili.

Il re aggrottò lo sguardo squadrando tutte le facce e indugiando sui più vanagloriosi.

“E sia”. Dal canto suo fu felice di acconsentire, il castello aveva bisogno di protezione.

La mattina dopo i due si misero in viaggio risalendo il fiume. Messere Della Collina a cavallo e la servetta che lo seguiva a breve distanza cavalcando un giovane mulo.

“Affronterò il drago e tornerò vincitore. Gliela farò vedere io a quei codardi chi è Messere Della Collina” Ripeteva mormorando il cavaliere. Il suo viso era pallido e le mani si aggrappavano malferme all’arcione. La servetta aveva fiducia nel cavaliere e non lo ascoltava perché era concentrata sulle incombenze del viaggio e non voleva deluderlo. Si era fatta avanti perché non sapere cosa accadeva sulle montagne mentre la vita continuava a corte come se nulla fosse le avrebbe messo una tale agitazione da farle perdere il sonno.

Dopo una lunga salita, finalmente il bosco si diradò rivelando un grande lago azzurro.

Era il grande lago Ramone, bacino padre dell’Armino. I due viandanti ne iniziarono subito a percorrere la riva.

La tensione era palpabile nei due avventurieri, l’aria ferma e le acque del lago immobili.

Nel silenzio assoluto una meravigliosa aquila reale piombò dal cielo picchiando sulla superficie, proprio a pochi metri dai due e quando sembrò stesse per afferrare un pesce sotto al pelo dell’acqua una enorme creatura ne saltò fuori addentando il volatile a mezz’a,ria, proprio come un coccodrillo.

Di fronte ai due forestieri paralizzati dall’orrore si stagliò infine in tutta la sua maestosa figura di un enorme, guizzante, drago verde scuro.

La creatura li ignorò e masticando con calma il pennuto che scrocchiava come un biscotto tra le fauci. Pareva abbastanza compiaciuto perché emetteva anche mugolii di goloso apprezzamento.

Assistendo allo spuntino i poveretti ebbero tutto il tempo di osservare il mostro nei dettagli: al posto delle zampe posteriori aveva due pinne carnose, le zampe anteriori erano invece lunghe e affusolate, dotate di artigli che spuntavano da dita palmate. Gli occhi erano grandi, tondi e umidamente inespressivi. La bocca ricordava quella di un coccodrillo, ovviamente piena di denti affilati e la lingua era lunga e morbida, come quella di un cane. Il corpo snello molto lungo e terminava in una coda da serpente. Era alto come un gelso, enorme, e si muoveva a scatti come una lucertola.

Il cavaliere strinse i denti e tenendo saldamente la mano sull’elsa della spada spronò il cavallo per avvicinarsi al grande e misterioso essere, ormai giunto placidamente a riva.

“Oh grande e potente drago ascoltami! Ho bisogno del tuo aiuto per risolvere una grave questione”. Il drago si gettò alle spalle un pezzo di aquila squadrò i due e sbadigliò.

Non sembrava impaurito.

Ne particolarmente impressionato.

Sembrava piuttosto divertito:“Dimmi piccolo. Come ti posso aiutare?”La sua voce era profonda e musicale.

“Grande drago il regno di Pervinca si sta estinguendo a causa tua e dei tuoi bagni in questo lago. Lo avveleni trasformando in pietra chiunque beva questa acqua che l’Armino ci porta. Va via da qui e non tornare mai più, altrimenti mi vedrò costretto a farti fuori”.

Il drago fece una risata tonante e rispose “Chi mi farà fuori? Tu? Il tuo cavallo? O quella piccola signora alle vostre spalle?”.

Osservandosi attorno la servetta si rese conto di conoscere molto bene quei luoghi perché il nonno gliene aveva parlato quando era piccola. Il vecchio in gioventù spesso ci si avventurava per andare a caccia e a pesca.

Infine, sentendosi nominare, fece un passo avanti e si chinò in una profonda riverenza ignorando il Cavaliere in un impeto di imperdonabile superbia. Disse:”O grande e potente drago, a nord, dietro quel vallone alle tue spalle si trova un altro lago che origina direttamente dal ghiacciaio e la sua acqua è ancora più fresca e pura. A te non costa nulla se d’ora in poi fare lì tuo bagno quotidiano! Risparmia il nostro popolo!”

Messere Della Collina la guardava ammutolito, indignato e grato contemporaneamente, con occhi e bocca spalancati.

Il drago rispose “Non ne ho la minima intenzione. Perché dovrei sforzarmi quando ho questo splendido lago a pochi metri dalla mia grotta”disse indicando con un lungo artiglio una spaccatura nella roccia. “Andate via. Andate via e tornate alle vostre case! Cambiate villaggio se non vi sta più bene il vostro!”

Questa volta con una velocità tremenda e una potenza inaudita agitò la grande coda e sbattendola sul terreno fece tremare alberi e rocce facendo sollevare alte onde nelle acque lacustri. Il cavallo si imbizzarrì scagliando a terra il cavaliere, il drago ignorò quindi la piccola ambasciata e volse loro le spalle andandosene via a grandi passi e si immerse con un tuffo silenzioso sparendo nell’acqua.

Il cavaliere, dolorante, disse alla compagna: “Per quanto mi riguarda l’avventura finisce qui. Conservo integri il mio valore e la mia scarsella. Vado via da e spero di dimenticare questa storia al più presto. Andiamo!”

La servetta non era assolutamente d’accordo. ma acconsentì e fuggì alla prima occasione che si presentò, mentre il cavaliere dormiva.

Finalmente libera si interrogava sul da farsi. Quanto le mancavano i dolci alla cannella!

Nel frattempo giunse al Bosco dell’Orso e si ricordò del grande mago. Decise allora di fare un ultimo tentativo e di chiedere consiglio al vecchio.

Raggiunta la capanna vide un grande recinto pieno di strumenti strani e misteriosi gettati alla rinfusa, compresa la botte volante. Rimase per un istante affascinata, dimentica della sua missione, ma giunta all’ingresso dello steccato tirò la corda della campana per annunciarsi.

Tu servi alla corte del re Gustavo. che cosa ci fai qua? Avete risolto i vostri problemi idrici?”.

Il potente mago le apparve alle spalle con un forte odore di zolfo addosso. La servetta disperata rispose “no, grande mago non abbiamo risolto nessun problema, anzi”. E lo ragguagliò sull’incontro con la creatura. “Mi dispiace tesoro, ma non so come aiutarti. Come vedi non ho tempo ed ho bisogno di moltissime cose per portare avanti i miei lavori”, disse indicando tutte le apparecchiatura sparse sul terreno.

La servetta insistette:” Possibile che non esista un modo per allontanare il drago o ucciderlo?” Il mago rispose “forse sì, forse no. Ma perché dovrei aiutarti??”

“Due bauli pieni d’oro. ti ricordo che ti aspettano a corte quando riferirò che ci hai dato le indicazioni giuste”.

“A me ne servivano due. Per questo ne ho chiesti quattro”. Sorrise il vecchio lisciandosi la veneranda barba.

“Potrei aiutarti, ma come mi può ripagare una serva? Io posso fare miracoli prima dell’ora di pranzo, tutti i giorni”.

La servetta osservò allora la capanna. Era piena di cose preziose e interessanti ma era anche sporca e disordinata. “Allora” disse, “facciamo così. Prendimi come apprendista. Mi occuperò delle pulizie e della cucina, in cambio mi insegnerai le tue arti. E non sarai più solo a badare a tutte le incombenze. Inoltre un assistente ti tornerebbe utile permettendoti di lavorare senza pensare a prepararti il cibo per esempio”. Il vecchio mago fece una faccia seria e brutta.

Ma poi si guardo attorno e sospirò.

“Hai ragione, affare fatto!”

Si mise a frugare dentro a un comò e tirò fuori una grossa pietra grigia.

“Ecco qua: se vuoi diventare mia apprendista dovrai superare una prova. Questa pietra è un repellente per draghi e guarda un po’! Serve ad allontanarli. Nascondila dentro la tana del lucertolone e lui non potrà più farci ritorno a meno di non patire delle sofferenze indicibili. Usala per scacciarlo via. Se ci riuscirai potremo collaborare e ti insegnerò tutto quello che so”.

La servetta prese la pietra, ringraziò e fuggi sulla montagna.

Quella notte dormì nel bosco di fronte al lago con la testa appoggiata sulla pietra, avvolta nel suo mantello.

Sognò i genitori trasformati in pietra e il villaggio inondato dal fiume.

La mattina, dopo una frugale colazione si appostò e attese che il drago uscisse dalla grotta.

Il drago per molto tempo non si fece vivo, poi, nell’ora più calda la terra tremò con un boato.

Il drago era sbucato alle sue spalle. Gli occhi liquidi e inespressivi roteavano, “Ancora qui. vi avevo detto di andare via. Adesso ti divorerò!”. Il drago spalancò la bocca e si avventò sulla testa della povera servetta. Lei istintivamente si fece scudo con la pietra. Addentandola il drago le ferì una mano staccandole un dito di netto, ma così facendo strappò via anche il mantello attivando il potere della pietra. Il mostro iniziò allora ad urlare e a rotolare sul terreno. Gli uccelli si alzarono in volo, gli alberi scuotevano forte le chiome per le vibrazioni. La fanciulla fu colpita dalla coda e catapultata su un cespuglio a diversi metri. Il drago si grattava con gli artigli strappandosi scaglie e pelle in preda un prurito terribile. “Basta, basta nascondi quella cosa”.

La servetta ignorando il dolore alla mano, raccolse il mantello a brandelli e lo appoggiò sulla pietra permettendo al drago di trovare pace. “Maledetta!! Maledetta!! dove l’hai presa?”

La servetta rispose: “questa è solo una delle pietre che abbiamo fabbricato nel nostro regno. Cosa credi, che saremmo rimasti con le mani in mano ad aspettare che ci facessi fuori tutti? Se mi uccidi torneranno gli altri e riempiranno la tua caverna, il lago, il mondo intero di pietre come questa!”.

Il drago abbassò la testa:“Pietà, no pietà!”.

“Facciamo una tregua allora!”

“Ma io non posso lasciare la mia caverna, devo custodire questa montagna! Se me ne vado chi si prenderà cura di lei? Chi la difenderà dagli uomini?”

La servetta allora rispose “Nessun problema. Sai cosa devi fare? Vivi tranquillo la tua vita e vatti a bagnare nell’altro lago. Ma se un solo abitante diventerà di pietra, d’ora in poi, torneremo. E saremo tanti. Ognuno con una pietra”.

Il drago rispose a testa bassa come un cagnolino: “va bene, va bene farò come dici tu. Non sentirete più parlare di me. Te lo giuro”.

La servetta mentre si fasciava la mano stringendola stretta con una manica strappata al vestito aggiunse: ”Posso guarire gli abitanti tramutati in pietra?”.

Il drago ci pensò su, poi si tuffò nel lago e tornò con un anfora d’oro.

Svitò il tappo incrostato di enormi gemme ed alghe, si incise il braccio sinistro con un artiglio e la riempi di sangue.

La tappò e la consegnò all’umana.

“Mescolate il sangue all’argilla e ungete i vostri cari. Torneranno immediatamente alla normalità. E adesso vattene via piccolo demone”.

La servetta fece la reverenza, tutto sommato quel drago non le dispiaceva.

Fuggi nel bosco dopo aver recuperato il suo muletto e poco tempo dopo nel regno Pervinca

Tornò finalmente la normalità. La servetta spiegò che Messere Della Collina era stato divorato dal drago verde ma era riuscito a procurargli una ferita mortale combattendo ancora quando era nelle sue fauci.

Affidò il sangue con le istruzioni ai nobili ma prima di entrare in città, col favore del buio, aveva travasato il sangue in un vaso di terracotta e aveva sepolto l’anfora nel bosco.

Finalmente riabbracciò il nonno e i genitori. Raccontò alla madre dell’anfora, spiegando come raggiungerla e infine, quando la mano fu guarita completamente, sparì dal regno Pervinca dove non tornò mai più.

Il giorno stesso, il Mago dell’Orso tornò a palazzo reclamando gli altri due forzieri d’oro.

Da allora, ogni tanto, qualche cacciatore o brigante, tornando in città, racconta che di notte nel Bosco dell’Orso, per quanto assurdo, si senta profumo di dolcetti alla cannella.

FINE