L’autore

William Bavone, classe 1982. Ha al suo attivo saggi di geopolitica, romanzi, novelle per bambini e vari racconti.

È curatore delle antologie thriller Istinti Distruttivi (Augh!, 2021) e Rintocchi dal Buio (Scatole Parlanti, 2022). È coautore del concept book La Giornata dell’Ornitorinco (Fides Edizioni, 2022). Finalista in numerosi concorsi, terzo posto nel 2022 al “Gran Giallo di Cattolica”). Nel 2024 ha pubblicato il racconto lungo Falena (setteChiavi Editore) e a luglio dello stesso anno debutta in Newton Compton.

È curatore della collana di racconti horror Dopo Mezzanotte per quelli di OperaNarrativa Edizioni. Tra i titoli in collana un suo contributo dal titolo Bad Death Trip.

 

 

 1

“Non farti più vedere o ti sfondo il torace con il cavatappi di tua madre!”

“Ma io…”

“Ma io cosa? Vattene a pisciare all’inferno e non farti più vedere!”

Un sasso gettato contro il vetro. Un’incrinatura che morde la superficie liscia rompendo la perfezione di una vita. Luca stringeva il cellulare tra le mani, un filo di vento soffiava via pensieri inconsistenti. Si abbandonò con la schiena sulla spalliera della panchina. Un gruppetto di bambini giocava a rincorrersi all’ombra degli alberi mentre le madri sfogliavano notifiche sui telefoni. Luca sbuffò, la testa piena di una poltiglia informe.

Tornò con gli occhi sul display, il dito a scorrere tra i contatti WhatsApp e il desiderio di un messaggio di lei. Un messaggio capace di spingere indietro il tempo e risucchiare quel nero che gli premeva in petto. Che senso ha? Si chiese come a darsi uno schiaffo prima di far scivolare il cellulare in tasca. Elena era il passato, una crepa profonda impossibile da riparare, un terremoto devastante in un mondo immaginato e che nemmeno esisteva più.

Luca rivide suo padre, un uomo minuto che aveva lasciato sul comodino il collarino ecclesiastico per confessare la propria paternità. Rabbrividì nel sovrapporre il volto di quell’uomo alla smorfia lussuriosa di Don Paolo, il parroco del quartiere. Ne aveva sostenuto lo sguardo per una frazione di secondo prima di fuggire via, lontano dall’orrore. Il cuore gli era esploso in petto davanti a Elena, la sua Elena, sbattuta dal prete nudo sotto la doccia, la sua doccia. Lei, piegata in avanti, a sbattergli in faccia un sorriso riempito dai colpi della fede. Luca cercò di arpionare gli occhi a qualcosa di consistente, reale, ma trovò di fronte a sé le finestre dei condominii, bocche spalancate di un mondo che gli urlava contro. Cornuto. Non sarebbe tornato indietro, lo sapeva e non lo capiva. Elena lo aveva chiamato per strappargli il cuore e il matrimonio. È finita, gli aveva vomitato nei timpani senza concedergli alcuna replica, ma versandogli addosso vagonate di merda. Lui, le regole, la vita piatta e senza colori.

La pelle gli s’increspò, tra le tempie il nero dell’abito telare appallottolato sul pavimento del bagno, una pezza qualunque con cui coprire il peccato.

Strinse i pugni cercando di arginare i singhiozzi umidi di lacrime.

“Sìì. Ehi, tutto bene?”

Si voltò cercando di risvegliare i sensi intorpiditi dal veleno. Nemmeno qui si può avere un cazzo di attimo di pace. Un uomo giovane era in piedi accanto alla panchina. Una figura esile vestita con abito blu e camicia di seta senza grinze. E le scarpe, poi, dei mocassini neri tirati a lucido con due fibbie sul dorso simili a strani serpenti.

“Tutto bene.”

“Sìì. È che ti ho visto un po’ così… paonazzo… strano, e allora mi sono preoccupato.”

Luca sospirò. Faccio così schifo? Elena gli aveva prosciugato il conto e, come se non bastasse, era stato anche sbattuto fuori di casa. Fanculo a me, quella frana che lo aveva travolto se la sentiva addosso come la giusta punizione per aver sbagliato. “Niente di che.”

“Io sono Antonio” disse allungando la mano sotto un sorriso affabile.

“Luca” strinse la presa. Lo fece per educazione, ma di rimando l’altro gli si sedette accanto: ecco, il preludio di una scocciatura. 

“Sìì. Che fai di bello?”

“Niente, cerco una nuova direzione per la mia vita.”

“Sìì. Wow. Figo. Io dico che occorre lasciarsi trasportare dal vento, fare quel che capita, capisci?”

“Certo, ma mettiamola così: a me non sembri uno che è stato mollato dalla moglie, sospeso dal lavoro e cacciato dal divano di casa del suo collega.”

“Sìì. Cazzo, amico… se volevi impressionarmi, ci sei riuscito.”

“Non voglio impressionare nessuno” sbottò Luca, “voglio solo essere lasciato in pace.”

Antonio rimase con lo sguardo dritto davanti a sé, le labbra distese in una smorfia serena: “Sìì. Hai almeno dove andare?”

Bella domanda. Luca inseguì con gli occhi due foglie rincorrersi sul marciapiede, nelle narici il marcio della vegetazione autunnale. Quanto era passato? Due ore, forse tre. Stefano, il suo collega, lo aveva cacciato di casa senza spiegazioni. Una pacca sulla spalla e un mi spiace appiccicato sulla coscienza. Forse la compagna di Stefano era stufa della sua presenza sul divano, in bagno, in cucina e allora… e allora ciao.

“Una soluzione c’è sempre.”

“Sìì. Se lo dici tu. Ti va se andiamo a quel chiosco lì in fondo? Tu fai finta di chiedere informazioni e io prendo qualcosa da mangiare.”

Luca si sorprese, dietro la nuca una sensazione di un caldo gelido che scorreva in tutto il corpo. “Mi stai proponendo di rubare?”

Antonio parò le mani avanti: “Sìì. No, no. Stai calmo. Era solo un’idea. Pensavo avessi un po’ fame. Non ti ho mica proposto di uccidere.”

Lo stomaco di Luca si annodò in un groviglio di desideri che sembravano insaziabili, ma l’idea di rubare gli strappava via il fiato. “Non ho fame.”

“Sìì. Meglio così. Be’ caro mio, questo è il mio biglietto da visita. Se hai bisogno di qualcosa chiamami. Sono un agente immobiliare e un tetto sulla testa non si nega a nessuno” disse strizzando l’occhio e tenendo tra due dita un cartoncino rettangolare.

Luca attese. Ma chi cazzo ti conosce. Lo scrutò un istante, era l’unico a offrirgli un appiglio in quel vuoto che lo tirava giù. Allungò la mano: “Non è che mi proponi di scassinare una porta e occupare un appartamento?”

“Sìì. Potrei, ma mi pare di capire che non sei il tipo.”

“No, non sono il tipo.”

“Sìì. Ah, le regole… fanno di questo mondo una terribile noia” sbuffò, “il pudore spegne il fuoco ma non la brace. Basta soffiare.”

“Cosa?” Luca non riusciva a cogliere il senso di quella divagazione.

“Sìì. Nulla, vecchio mio. È ora di andare per me. Il tempo è una slot machine.” Antonio si alzò stirandosi il vestito: “Sìì. Ci si becca, amico. Il mio numero ce l’hai.”

Si strinsero la mano e un brivido di freddo punzecchiò Luca fin nelle ossa. Aprì le dita d’istinto, uno scatto nervoso. L’altro sorrise e se ne andò come se nulla fosse. Luca si guardò attorno, mamme e bambini non c’erano più e nemmeno le auto sembravano voler attraversare quell’angolo di città. Era rimasto solo. Ancora. Più di prima.

2

Ore, minuti, secondi… non erano altro che un tutt’uno, un grumo denso che per Luca stentava a muoversi. Il tempo gli si era aggrappato alla schiena e gli piantava i piedi al suolo. Si strinse nelle spalle, il freddo iniziava a farsi largo tra le piume d’oca del bomber.

Luca camminava senza meta, San Siro era un’ombra fredda che inghiottiva l’anima. Nel naso lo smog faceva a pugni con le foglie marce, ma le rogne per Luca venivano dallo stomaco striato dalla fame. E ora? Il sole in cielo cadeva dietro i palazzi appesantito dal rossore del tramonto.

Guardò oltre la strada, l’insegna sgargiante di un market pakistano lo arpionò. Magari… fece mente locale tastandosi le tasche. Delle monete, un cinquino accartocciato da qualche parte. Scandagliò ogni angolo facendo affidamento su quel buon Dio che aveva sempre pregato senza mai chiedere nulla in cambio. Niente, solo scontrini e fazzoletti. Aprì il portafogli. La foto di Elena gli sorrideva. Sorridevi all’obbiettivo, non a me. La sfilò via, ma le dita tremavano come se quel francobollo di carta pesasse tonnellate. Cedette pur di non vedere il protrarsi di quelle vibrazioni nervose e l’immagine planò al suolo al pari di una foglia morta. Lasciò perdere quel senso di dolore che gli formicolava in petto e tornò concentrato tra le pieghe del portafogli. Tessere del supermercato, biglietti da visita e carte di credito. Le aveva scandagliate tutte, ma Elena era arrivata prima di lui e le aveva rese oggetti inutili. Aspetta, aspetta… le dita scivolarono sulla prepagata. Nel caos in cui era piombato, se n’era dimenticato. Afferrò il cellulare e controllò l’app con la certezza che ci fosse qualcosa, un residuo sempre pronto per gli acquisti online.

“Sì, cazzo!”

Quaranta euro gli apparvero come uno scrigno colmo di monete d’oro. Dio esiste! Grazie! Si diede un istante di riflessione, attimi per fare un accurato bilancio delle necessità. Non gli sarebbero mai bastati per mettersi un tetto di fortuna sulla testa. Meglio mettere qualcosa in pancia. Fu lesto, passi lunghi come i solchi della fame che gli segnavano le pieghe gastriche. Spinse la porta a vetri e un fiume di spezie gli inondò l’olfatto. Dietro a un banco di fortuna, un pakistano continuava a guardare lo schermo di un telefono che sembrava vomitare parole gommose al sapore di curry. Luca accettò l’indifferenza e si guardò attorno, non era lì per un dibattito sulla vita a Islamabad. La prima ala di scaffali era dedicata a verdure e frutta con estensioni esotiche, poi il resto, e il resto era un assortimento di alcolici che avrebbe fatto invidia a un qualsiasi pub. L’ultimo angolo era un bazar alimentare su cui Luca concentrò la propria attenzione. Quaranta euro, il mantra che gli tintinnava tra le tempie, niente cazzate. Proteine, verdure, vitamine e ogni stronzata finirono in una pattumiera di idee abortite insieme a surgelati e altre pietanze da cuocere. Non aveva idea di quanto tempo ci sarebbe voluto per uscire da quell’inferno. Strinse tra le mani una confezione di panbauletto, poi un’altra e un’altra ancora. Se le mise sotto al braccio e afferrò una cassa d’acqua. Tra le iridi gli si congelò una bottiglia di whisky dozzinale. Deglutì e guardò più in basso le lattine di birra. Quelle potrei… un paio… nelle tasche del bomber. Il ghigno soddisfatto di Antonio gli calò davanti come un sipario. Distolse lo sguardo così come i pensieri che non gli appartenevano, e con mezzo giro di busto approdò davanti al banco dove il pakistano continuava a farsi sedurre da cose incomprensibili.

Pagò con un brivido, la paura che quei pochi euro non esistessero, ma il bip e lo scontrino che si srotolava lo rasserenarono. Poco meno di trenta euro gli rimasero in carta come una fune sfilacciata che lo teneva sospeso nel vuoto. Doveva resistere, avere fede nella soluzione e nel buon Dio.

Cercò una panchina vicina e lì divorò una manciata di fette di pane, giusto quel tanto per mettere a tacere i succhi gastrici che minacciavano di divorarlo dall’interno. Il primo sorso d’acqua mandò giù tutto, il secondo lo tenne a galla nella ritrovata realtà. Nessun posto dove stare, circondato da luci artificiali che smembravano il buio crescente e un rettangolo di carta su cui erano stampati un nome e un numero di telefono.

Se lo rigirò tra le mani, si sentiva uno scarafaggio in cerca di un tappeto sotto il quale andarsi a nascondere. Zampettò con la mente ancora un po’ finché non spiaccicò ogni titubanza. Un solo squillo e la speranza si riaccese: “Ciao, sono Luca.”

3

Glielo aveva chiesto più volte, senza sosta. Per Luca era importante, e a nulla bastavano le rassicurazioni bonarie di Antonio. Vai tranquillo, gli aveva detto l’agente immobiliare, è l’unico appartamento sfitto che posso mettere a tua disposizione, fidati. Ma per Luca era troppo, e il troppo non era altro che una pozza nera. Così alla fine, un po’ per stanchezza, un po’ per mancanza di alternative, cedette. Complesso Leviatano, al civico 6 di via Adamello, dietro al Lago di Basiglio.

Recuperò l’auto e ci si fiondò con la sola voglia di riposare e rimettersi in sesto. La faccia gli prudeva da far schifo, non era abituato a lasciarsi andare così. Quant’era che non si radeva? Due, tre giorni? Troppo.

Antonio gli aveva detto che l’unico appartamento disponibile era al sesto e ultimo piano, e Luca ci andò in quel luogo sperduto. Ci si era fermato davanti senza pretese, ma con il battito in gola. In fondo, un minimo ci aveva sperato nella normalità. Un unico palazzo si spingeva verso l’alto affossandosi in un cielo senza luna e le fondamenta giù, a marcire in una terra satura d’acqua. L’odore era stantio, prossimo a una condensazione viscida. La porta d’ingresso era solo accostata e la luce a neon vibrava in prossimità delle scale. Li aveva percorsi tutti quei gradini maledicendo l’assenza di un ascensore. Uno dopo l’altro, li aveva immaginati sgretolarsi come biscotti inzuppati nel latte. Qua e là, le pareti erano gonfie come vacche gravide fino a sfondarsi in calcinacci ammucchiati a terra. C’era arrivato in stanza, recuperando la chiave da sotto lo zerbino come gli aveva detto Antonio. Ma la cosa che più lo aveva annichilito era il silenzio, una voce consistente, una presenza che opprimeva passo dopo passo. Aveva sbirciato a ogni piano, ma le porte erano tutte chiuse e gli spazi ingoiati dietro quel legno poroso. L’unico appartamento disponibile era al sesto piano, e lui c’era dentro.

La mobilia era scarna, divorata dall’umidità che, come un cancro, allungava aloni osceni dal soffitto alle pareti. Che schifo, il dito scivolò sul bordo della finestra portandosi via un grumo nero e freddo. Guardò fuori. Le luci di Milano faticavano a farsi largo nella foschia che saliva… da dove? Cercò di spingere la vista tra quei campi di desolazione che aveva sotto, ma nulla. Il buio dava l’impressione di nutrirsi di tutto, persino degli incubi.

Sospirò lasciandosi andare sulla brandina. Era stremato, gli si erano arrampicati addosso come un’edera maligna. Con le tossine nel cervello, prese il cellulare e cercò il profilo di lei su Facebook. Lo scrisse in mille modi quel maledetto nome, ma nulla. Mi ha bloccato, la puttana… Lasciò cadere a terra il telefono, il cuore pulsava dolore e gli occhi distillavano rivoli di veleno. Non aveva scelta se non attendere che il sonno lo portasse via, nel buio senza fondo.

4

Riemerse con la schiena che imprecava. Umidità del cazzo. Il display del telefono segnava le 8:02. Luca si trascinò alla finestra mugugnando e si lasciò trafiggere dalle pallide lame di luce. Fuori una leggera foschia rimaneva incollata al terreno, un tappeto d’ovatta sfilacciata che lasciava intravedere una melma sbiadita, forse una palude. Qua e là emergevano sterpaglie e relitti di elettrodomestici sventrati dalla ruggine. Sarà pur per poco, ma è una merda. Doveva riattivarsi, riprendere le redini di una vita che, imbizzarrita, l’aveva disarcionato. Scivolò col pensiero sull’ironia di quello sfascio, due giorni e avrebbe compiuto quarant’anni. Un sorriso amaro gli si allargò in volto, lo intravide nel riflesso della finestra, lì tra gli aloni grigi dell’incuria che sembravano inghiottire quel luogo.

Fanculo. Masticò una fetta di pane, un impasto vischioso gli si incollò tra denti e gengiva. Faticò con la lingua e sentiva, sentiva l’impasto di saliva e molliche, sentiva la gola deglutire, sentiva tutto in quel fottuto silenzio.

Un pezzo gli sfuggì dalle mani e cadde a terra. Lo seguì con lo sguardo, ma un tremore gelido gli scavò la carne. Una scolopendra gli zampettava tra i piedi frustando l’aria con le antenne. Si ritrasse, incerto se ucciderla o lasciarla andare. E che cazzo, si scostò e allungò il passo. Uscì dall’appartamento col desiderio d’incontrare qualcuno. Quel palazzo, alla luce del sole, era ancora più squallido. Rigagnoli d’acqua scorrevano lungo le pareti e finivano in pozze da cui affioravano muffe rigogliose. Due scarafaggi poco oltre si inseguivano fino a sparire sotto la fessura di una porta. Ma che cazz… Aveva assolutamente bisogno di un contatto umano, quel luogo solleticava la follia. Seguì gli insetti e bussò. Nulla. Cercò di girare la maniglia, ma ancora nulla. Ma è possibile che in questo maledetto posto non ci sia nessuno? Un piano per volta incontrò un silenzio schiacciante, un ago che lo trapassava da tempia a tempia. Nessuno rispose, le porte chiuse come fossero muri invalicabili. Prese il telefono e scorse la rubrica, le mani tremanti. Calma. Un fiato. Devo restare calmo, cazzo.

“Ciao, sono Luca.”

“Sìì. Ciao, come va?”

“Bene, ma… non avevi detto che c’era solo un appartamento libero qui?”

“Sìì, perché?”

“A me sembra che non ci sia nessuno. Fuori c’è solo la mia macchina e ho bussato a tutte le porte senza avere risposta.”

La risata di Antonio sembrò un graffio tra i timpani, un’esagerazione sguaiata e viscida.

“Mi hai truffato?”

“Sìì. Truffato?” La voce dell’agente immobiliare tornò tesa come un colpo di frusta: “La vita è un susseguirsi di scelte. Piccole o grandi, non importa, tutte hanno una conseguenza. Tu hai accettato il mio aiuto, hai piagnucolato per avere una soluzione legale, pulita e io te l’ho data. Cos’altro vuoi? Una vicina tettona che ti porta una crostata fumante al mattino come buongiorno?”

Luca sentì la gola inaridirsi, ogni parola era una sassata di vergogna. Era vero, Antonio gli aveva teso la mano senza nemmeno conoscerlo e lui cosa stava facendo? Lo ringraziava con accuse?

“Mi spiace” sussurrò.

“Sìì. Tranquillo” il tono di Antonio si ammorbidì, “ne stai passando di tutti i colori. Torna nel tuo appartamento e rilassati, vecchio mio.”

Luca fece scivolare il telefono in tasca e obbedì. Per ogni gradino un senso di colpa gli si sedimentava nello stomaco. All’ultimo piano riemerse dalle ombre dei pensieri. Ma cosa… La porta degli scarafaggi liberava una linea di luce verticale. Ma… ogni certezza si inabissò in un’acqua torbida. Si avvicinò sentendosi le parole frantumare in gola: “C’è nessuno?”

Spinse la porta e nelle iridi gli si congelò un pezzo d’ottone incastonato sulla superficie di legno. Un 6 troneggiava sull’uscio. Prima non c’era, ma il cigolio dei cardini trascinò via ogni obiezione.

“C’è nessuno?” ripeté varcando la soglia.

Ovvio che no. Non c’era nulla se non fili di corrente e tubature che squarciavano le pareti. Nulla, se non quel cilindro giallo sul pavimento. Strinse gli occhi. Un passo, e un altro ancora. Che cazzo è?

Si piegò sulle ginocchia e raccolse l’oggetto. Una cassa Bluetooth! Ne aveva viste di simili nei vari store della città. Un aggeggio che si connetteva al cellulare per amplificare il suono della musica. Si guardò attorno stranito. Non lo fare, non è tua. Si strinse nelle spalle e in un respiro si rintanò nel proprio appartamento.

Gettò via il bomber, la temperatura sembrava aver acquisito qualche grado. Afferrò il cellulare e attivò la connessione Bluetooth. Nell’altra mano, la cassa si animò con un bip morbido e acuto.

5

Luca cercò tra la playlist il suo pezzo preferito, aveva voglia di qualcosa che rompesse quell’insopportabile silenzio. Le note dell’Allegretto di Mozart presero a zampillare nell’aria. Funziona! Alzò ancora di più il volume, lo sentiva come un’ascia che frantumava la solitudine.

Si abbandonò sul letto, chiuse gli occhi e assaporò il calore di una flebile felicità.

Silenzio.

Un colpetto di mano alla cassa. Lo sapevo, è andata. Con tutta quell’umidità era più che possibile, ma la soluzione parve funzionare: quell’affare emise un suono che sapeva di connessione. Luca si rilassò in attesa di Mozart.

Un rintocco di campana. Un altro e un altro ancora. Al quinto, il graffio di una chitarra sporca s’insinuò minacciosa. Afferrò il cellulare, sul display la scritta Hells Bells – Ac/Dc. Ma che è questa merda? Stoppò la musica, digitò “Mozart” e avviò il primo brano disponibile. Nemmeno il tempo di arrivare alla seconda nota che la cassa emise un acuto elettrico portando con sé un fumo nero.

“Fanculo!” La lanciò via. Non ne poteva più. “Perdio, nemmeno un po’ di musica si può ascoltare.” Si sentì abbandonato. Fece lunghi respiri, in cerca di un nuovo punto di equilibrio a cui aggrapparsi.

Le campane! Le sentiva inseguirsi nei rintocchi. Una, due volte, un continuo. Individuò la cassa, il suo odore gli solleticava ancora le narici. La raggiunse, la prese e se la rigirò tra le mani. Morta, ma le campane continuavano a sbattergli nelle orecchie. Un suono costante, vero.

Sto impazzendo, merda!

Aprì la finestra e lanciò via il cilindro giallo. Lo guardò affondare nella palude e fu silenzio. Appagato, leggero… erano le sensazioni che gli restituì quel gesto. L’aria fresca gli bagnava la pelle. Rabbrividì e chiuse le imposte.

Il cuore gli esplodeva in petto. Delle urla fuori dalla porta squassarono quel limbo. Corse contro l’uscita, l’occhio piantato nello spioncino: “Chi è?” urlò.

Non c’era nessuno, non vedeva nessuno. Si strinse le mani tra i capelli fino a provare dolore sulla cute. Sto impazzendo, pensò arretrando.

Le campane ripresero a suonare. Rintocchi impietosi, uno dietro l’altro. Sto impazzendo.

Afferrò dal letto il cellulare. Niente, ma quel suono c’era, era reale. Lanciò via il telefono. Le sento! Forse quelle stramaledette campane venivano dai muri, da fuori, da dentro, rintocchi disciolti nei rigagnoli d’acqua che trasudavano le pareti.

“Basta!”

Si fiondò fuori e andò a sbattere su qualcosa. Finì a terra, una fitta di dolore alla schiena. Un puzzo infernale lo catturò. Tra i mugugni sollevò lo sguardo e incrociò gli occhi gialli e spiritati di un relitto umano vestito di stracci, un rivolo di bava a solcargli la barba incolta. Luca spinse sui talloni per sottrarsi, ma l’altro parve non contenere un’ira cieca. Esplose in un urlo deforme e aprì le braccia rivelando la bottiglia vuota che impugnava in una mano. L’istinto rispose. Luca scalciò con forza, dritto all’addome. L’uomo parve colto alla sprovvista e indietreggiò fino ai gradini delle scale. Fu un attimo, e lo vide cadere giù. Silenzio.

Si alzò ancora dolorante e si sporse. Il barbone era immobile.

Corse in casa, il fiato corto e il cuore a ostruirgli la gola. Dov’è? Afferrò il telefono.

“Antonio! Antonio! Ho ucciso un uomo!”

Dall’altro lato riuscì a percepire solo un respiro denso di calma e pace.

Luca scoppiò in lacrime e si accasciò a terra sulle ginocchia, la mano sul viso: “Ti prego, aiutami!”

“Sìì, scelte, conseguenze. Ricorda.”

“Aiutami ti prego! Ho ucciso un uomo!”

Sentì riattaccare. Un boato di nulla lo travolse e il cellulare gli cadde di mano.

Raccolse le poche forze che gli rimanevano. Magari è solo svenuto. Tornò fuori, sul pianerottolo fino alle scale. Non c’era nessuno.

Le campane. I rintocchi tornarono più forti di prima, un’eco che vibrava in tutto il palazzo. Guardò la porta degli scarafaggi: chiusa, niente numero. Si sentì mancare. Strinse le mani contro le tempie e l’idea di impazzire gli prosciugò il sangue in corpo.

Devo andarmene da qui.

Si affrettò giù dalle scale inseguito dal suono infernale. Se lo sentiva dentro, sottopelle, come avesse un campanile piantato nella gabbia toracica. Saltò gli ultimi gradini e si lanciò sulla porta d’uscita. Fuori la nebbia aveva acquisito spessore, la città non era che un insieme di forme memorizzate.

Rimase stordito. La sua auto non c’era più. Un cumulo di ferraglia bruciata ricordava l’Audi che aveva parcheggiato lì la sera prima. Quel barbone di merda. Luca non ne aveva più, si sentiva a pezzi. Fece uno scatto sull’asfalto con l’idea di raggiungere le case più vicine, ma dovette fermarsi.

Un cane nel mezzo della strada ringhiava, un fascio di nervi piantato al suolo. Luca arretrò e riprese la sua fuga in direzione opposta. Voltò l’angolo, negli occhi solo un paesaggio opaco e senza ombre.

Sentì il guaito del cane avvicinarsi e spinse sulle gambe. Più forte, si disse, ma i piedi sprofondarono in qualcosa. La palude, rabbrividì. Si dimenò cercando di poggiare i piedi su qualcosa e afferrare con le mani uno spuntone o un pezzo di terra. Nulla, andava giù in una melma viscida che gli rallentava i movimenti. Sempre più giù. L’acqua in bocca, il fango nei polmoni che faticavano a distillare ossigeno. Il livello della merda gli arrivò agli occhi e il petto bruciava.

Sentì le campane. Uno, due, infiniti rintocchi. Cercò di vedere. L’acqua, la nebbia, poi un sibilo ammutolì tutto e lo trafisse da timpano a timpano.

“Sìì.”

Mise a fuoco. Un paio di mocassini si mantenevano leggeri a pelo d’acqua. Neri, tirati a lucido, con due fibbie sul dorso simili a strani serpenti. Su di loro saliva un tessuto blu scuro e poi… più nulla o, forse, un rintocco.

 

FINE