1. Del re e del vagabondo e del loro incontro

C’era una volta un re…

“Già sentita! E poi dov’è la principessa???” – vi chiederete. Ebbene, se avete pazienza ci arriviamo. Anche perché c’erano anche un vagabondo, un corvo, una mela e… Ma andiamo per ordine.

C’era una volta un re, dicevamo, che come ogni re che si rispetti viveva un enorme castello arroccato sulle montagne. Una vera fortezza, dalla quale dominava dall’alto tutto il suo il regno, che si stendeva giù in basso per le valli. Il re in alto, il regno in basso. Come a confermare, semmai potesse sorgere un qualche dubbio, chi comandava e chi obbediva.

Ma gli abitanti del regno non avevano alcun dubbio di sorta. Non mancava di certo fra i sudditi chi era dissidente o, semplicemente, contestava l’operato del sovrano. Anzi! Il punto è che era il re medesimo, con i suoi ingiusti editti, tasse e prevaricazioni, a ricordarlo ogni giorno. Non era certamene un re magnanimo, come ormai avrete capito. Tutt’altro. Era una collezione dei peggiori vizi che un sovrano (e in generale un uomo) potesse avere. Avido, ingordo, avaro, egoista, insensibile, prevaricatore, ma soprattutto (e potremmo andare avanti per giorni con l’elenco) crudele. Godeva della sofferenza altrui e inventava ogni giorno un modo per rinnovare e prolungare questo godimento. In ritardo con le tasse? Ti tagliava il naso. “Come promemoria per la prossima scadenza!” – ti avrebbe detto – “Ogni volta che ti specchierai, ti ricorderai che il tuo primo dovere è verso di me: il tuo re!”. E ti avrebbe guardato dritto negli occhi con aria beata, mentre il boia eseguiva la condanna. Ogni giorno inventava una punizione nuova o una scusa per punire… Capitava anche che, svegliandosi di buon umore, ideasse entrambe. Inchino sbagliato? Rottura delle ginocchia! Cibo scotto? Taglio della lingua! Non rispondi prontamente alla chiamata del tuo sovrano (che magari bisbiglia per non farsi sentire…)? Taglio delle orecchie… tanto sono inutili.

Ebbene, come succede nelle migliori favole (e si spera sempre avvenga anche nel mondo reale), venne il giorno in cui il nostro malefico sovrano pagò per la sua crudeltà. A riscuotere venne un vagabondo. “Un vagabondo???” – vi domanderete forse stupiti – “Ci aspettavamo un drago o una piaga divina, magari un guerriero!”. Calma, lettori. A parte il fatto che il vagabondo ve l’ho annunciato all’inizio della storia (o eravate distratti?); in ogni caso la giustizia, come un rivolo d’acqua sul terreno, trova lentamente e in modo imprevedibile la sua strada. Inoltre – come apprese il nostro re meschino – le apparenze ingannano. Il vagabondo in realtà … Ma aspettate. Ve lo dirò fra poco.

Insomma, un bel giorno si presentò a palazzo un vagabondo che chiese di essere ricevuto dal re. Li per lì il nostro fu tentato di ordinare di liberare i mastini e farla subito finita. Non aveva tempo da perdere. C’era da punire un irritante omuncolo che non gli piaceva come lo guardasse… e non gli importava che accampasse la futile scusa di essere cieco. Poi, forse stuzzicato dalla novità, il re decise che l’omuncolo avrebbe potuto aspettare per la condanna (così avrebbe sofferto di più) e che avrebbe potuto dedicare un po’ del suo preziosissimo tempo al nuovo scocciatore.

Il vagabondo fu fatto entrare nella sala del trono. Era completamente vestito di nero e il cappuccio del mantello (anch’esso nero) gli nascondeva il volto. Ma aveva qualcosa di strano, notò il re. Sembrava che sotto al cappuccio non vi fosse alcun volto, ma solo buio. Non semplice ombra, ma un’oscurità che denotava non solo assenza di luce, bensì assenza di tutto. Un vuoto abissale che sembrava risucchiare chiunque si fosse incautamente avvicinato troppo all’oscuro viandante. Il nero visitatore emanava un’aura di immobilità e morte. L’aria stessa intorno a lui sembrava fermarsi. Unici segni di vita, si fa per dire, due di luci verdi che a volte brillavano là dove sarebbero dovuti essere gli occhi e (ve lo avevamo promesso) un corvo sulla spalla sinistra.

“Chi sei? Cosa vuoi dal tuo sovrano?” – tuonò il re, con il tono più imperioso che in quel momento riusciva ad avere. Il vagabondo lo inquietava. Un’ombra oscura che si sollevava dal lucido pavimento della sfarzosa sala del trono, che sino ad ora aveva accolto solamente essere supplici e disperati. La nera figura, che invece si ergeva ferma e sicura davanti al re, parlò. E fu come udire il suono di un tuono lontano; quello che appena giunge alle orecchie fa interrompere quello che si sta facendo per guardare, rabbrividendo, il cielo con la consapevolezza che qualcosa di peggiore sta per arrivare. “Non sei il mio re” – disse il viandante – “Nessuno mi governa. Sovrani e imperatori si piegano davanti a me. Alcuni mi invocano, altri mi maledicono. Molti sono i nomi che mi sono stati dati. Tu puoi chiamarmi Contrappasso”. Mentre pronunciava queste ultime parole, nell’abisso nero sotto il cappuccio del vagabondo brillarono di un verde inteso i due punti luminosi che che aveva al posto degli occhi. “Da te non voglio nulla” – proseguì l’ombra – “Sono io ad offrirti qualcosa”. Il re a quest’ultima osservazione si riprese dallo stato di smarrimento e, preso da un moto di orgoglio, disse “Come osi! Io non mi piego a nessuno! E di certo non voglio nessuna offerta da un misero vagabondo. Non c’è nulla che già non abbia o che non possa prendere come e quando mi aggrada!”. La nera figura non si scompose e proseguì dicendo “Aspetta a rifiutare: potresti pentirtene. Quello che ti offro è l’unica possibilità di salvarti”. Detto questo, il vagabondo si avvicinò lentamente al sovrano e poi sussurrò “Puoi rimediare al tuo empio comportamento se farai quello che ti chiederò. All’imbrunire verrà qualcuno in cerca di aiuto. Accoglilo e dagli supporto. Fallo ed eviterai la tua punizione”. Pronunciate queste parole, la nera ombra scomparve implodendo su se stessa, lasciando il nostro re tremante sopra il suo trono.

  1. Della principessa e degli oscuri piani del re

Lasciamo il nostro povero (si fa per dire) re a tremare e andiamo a conoscere l’altro abitante del castello. “La principessa?” – vi domanderete. Ebbene sì. Eccovi accontentati.

Dobbiamo dire che il nostro meschino sovrano qualcosa (anzi l’unica cosa) di buono l’aveva fatta. Sua figlia. La Principessa. Ad essere sinceri a far tutto era stata la povera compianta e defunta Regina, morta (ahimè) nel dare alla luce la piccola. Il re, diciamocelo, anche in questo caso si era comportato come era suo stile. Aveva preso quello che voleva: la Regina. Ma da quell’atto privo di amore era nato uno splendido frutto, su cui riversava le proprie speranze ogni abitante del regno. Era bella. Bella come tutte le principesse delle favole. Ed era buona. Di una bontà d’animo che poteva rivaleggiare per contrasto con la malvagità del padre. Il re la teneva in grande considerazione. Ma non era amore paterno, bensì un sentimento possessivo. Per il padre la principessa era un bene prezioso di sua proprietà. Un trofeo da custodire, esibire con ostentazione e – nel caso si presentasse la giusta occasione – mercanteggiare per ottenere qualcosa di più prezioso ancora.

E l’occasione il sovrano l’andava cercando a tutti i costi. Proprio per questo aveva organizzato un ricevimento per il giorno successivo. Aveva invitato tutti i regnanti e i nobili confinanti. Sarebbe stato un banchetto memorabile, di cui si sarebbe parlato per anni. Ma quali anni, secoli! Erano giorni che il castello era vibrava letteralmente per la frenesia dei preparativi. E il re, prima dell’infausto incontro con il vagabondo, era stato una furia che si aggirava nel castello. Aveva impartito ordini, aveva sbraitato contro chiunque gli capitasse a tiro, assegnando punizioni “esemplari” per un nonnulla. Di certo non c’era un clima di festa come ci si sarebbe aspettati. La stessa principessa si aggirava per le proprie stanze con aria afflitta e tormentata. Non le piaceva essere esposta! Esibita come ad un’asta e assegnata al miglior (secondo il meschino giudizio del padre) offerente.

Mentre il castello – come dicevamo – fremeva, giunse al calar del sole un cavaliere dall’aria malandata. A malapena si reggeva sul proprio cavallo, che nemmeno lui aveva l’aria di essere in salute. Insomma, il cavaliere e la sua cavalcatura davano proprio l’aria di essersela vista veramente brutta. Questo fu lo spettacolo che si parò davanti alle sentinelle del castello. Ma voi sapete bene che, se c’è una qualità per cui una sentinella si distingue, quella è l’aver buoni occhi e vista acuta. E le sentinelle del re di certo non erano da meno (altrimenti il nostro sovrano avrebbe fatto strappare loro gli occhi da tempo!). L’ottima vista delle sentinelle, dicevamo, fece sì che il povero cavaliere, nonostante il pessimo aspetto, venisse riconosciuto come il sovrano di un regno vicino. Fu così che le porte del castello vennero immediatamente aperte e un piccolo manipolo di soldati uscì per andare in contro allo sfortunato e scortarlo all’interno delle sicure e spesse mura.

Avevamo lasciato il nostro re tremante nella sala del trono. Quando il capo delle guardie entrò per annunciare l’arrivo del cavaliere, il sovrano aveva recuperato un po’ di contegno regale: c’erano i preparativi del ricevimento e non c’era tempo di interrogarsi su chi o cosa fosse l’essere che aveva incontrato. “Forse me lo sono sognato” – diceva fra sé il poveretto, asciugandosi il sudore dalla fronte – “Ecco! Certamente è così. Devo essermi addormentato sul trono per il troppo esaurimento. Questo ricevimento mi sta facendo diventare pazzo! Farò impiccare il ciambellano perché … perché sì e basta!”. Quindi, nel momento in cui gli annunciarono l’arrivo al castello del sovrano confinante, il re aveva ormai liquidato l’accaduto, anzi la notizia ricevuta lo distolse in modo definitivo dai pregressi timori (e tremori). La presenza nel castello di un proprio vicino suo pari debole e senza scorta era di certo qualcosa su cui concentrare i propri regali intenti. Se ormai avete imparato a conoscere quanto sia meschino il nostro re, vi sarà chiaro che questi intenti erano tutt’altro che altruistici.

Era da tempo che il re accampava mire sul regno confinante, in virtù di una pretesa lontana parentela (per ramo paterno ci teneva a sottolineare) con il fondatore. Per anni si erano combattute dispute araldiche, genealogiche, per poi passare a quelle belliche. Poi era stato firmato un trattato di pace. “E ora mi si presenta un’occasione unica!” – gongolava il nostro – “devo coglierla al volo”. E fu così che il sovrano del regno vicino venne accolto in un’ala riservata del castello, lontano da occhi e orecchie indiscreti. Qui raccontò di essere stato aggredito da un gruppo di banditi mentre era in viaggio per giungere al ricevimento.

L’invito al banchetto era stato mandato anche al regno confinante. Il ricevimento, aveva immaginato il nostro re, sarebbe potuto essere utile per ottenere eventualmente con un matrimonio quello che guerre e litigi non erano riuscite a portare: l’unificazione dei due regni. Dovete sapere che il sovrano del regno vicino aveva un figlio della stessa età della principessa. Nei macchinosi disegni del re, facendo convolare a nozze i due, avrebbe esteso i suoi domini e rafforzato la propria posizione. “E poi i principi si sa” – aveva pensato – “possono sempre avere un incidente di caccia o chissà quale altra sventura… e mia figlia regnerà sotto l’amorevole guida del padre”. Ma ora, dicevamo, si era verificata un’inattesa quanto gradita svolta. “Se il mio vicino scomparisse nel nulla e venisse dato per morto” – ragionava mentre fingeva di ascoltare con compassione il proprio sventurato ospite – “rispolvererei le mie pretese araldiche sul suo regno…”.

E fu così che il re diede ordine di avvelenare lo sventurato ospite, di farlo a pezzi e darne il corpo in pasto ai maiali. L’ordine venne eseguito alla perfezione eccezion fatta per l’ultimo dettaglio. Il capo delle guardie, cui fu assegnato il macabro compito, era un uomo fedele del re e aveva sempre eseguito senza batter ciglio gli ordini del proprio sovrano. Ma era anche uomo con un senso dell’onore. Un re, anche se nemico, è pur sempre un re e merita una sepoltura dignitosa. E fu così che il fato volle che per la prima volta il capo delle guardie non obbedì completamente al proprio re. Il corpo dello sventurato venne portato via in segreto e seppellito in un campo desolato poco fuori le mura.

La mattina successiva, sopra quel campo c’era – comparso dal nulla – un bellissimo melo carico di frutti. Sopra un ramo stava un corvo nero come la pece, che osservava muto il castello.

3. Del corvo e della mela

Il giorno seguente, come se niente fosse successo (anche perché nessuno sapeva cosa fosse successo) si tenne il sontuoso ricevimento. Le sale si riempirono di dame e cavalieri in un turbinio di colori, stemmi e vessilli. Conti, duchesse, re, principi e il loro seguito di paggi, guardie e servitori. Il re riceveva tutti gongolando di gioia e la principessa al suo fianco si prodigava meccanicamente in casti e silenziosi inchini. Ad un certo punto padre e figlia si separano. L’uno andò dal capo delle guardie per rassicurarsi che questo avesse eseguito alla lettera gli ordini impartiti la sera prima, l’altra si avvicinò ad una delle ampie finestre del salone non lontano da lei, attirata da un insistente picchiettare sui vetri.

Giunta alla finestra, la giovane vide che tutto quel beccare veniva da un nerissimo corvo che continuava a colpire il vetro della finestra. Ma non era il baccano prodotto da quel nero pennuto ad incuriosire la principessa. Ciò che attirava maggiormente il suo interesse era il modo in cui picchiettava. Sembrava quasi voler bussare. Mossa, dunque, dalla curiosità, la ragazza aprì la finestra con cautela, per non spaventare lo strano volatile. Ma il corvo non volò via, nè sembrò spaventarsi. L’unica cosa che fece fu smettere di battere contro la finestra e iniziare a guardare la principessa. Lo sguardo del corvo era ipnotico. La poverina non riusciva a staccare i propri occhi da quelli dell’animale. Poi le sembrò di iniziare a sprofondare in quei due abissi neri senza fondo. Una caduta libera nel vuoto buio e senza fondo. All’improvviso vide due puntini di luce verde che via via che proseguiva la caduta, si facevano sempre più grandi e luminosi. E fu a quel punto che udì una voce nella propria testa. “Accetta il dono che ti porto” – diceva la voce, che aveva il suono di un tuono lontano – “Mordi questa mela e assapora il nettare che tanto dolce quanto grande è stato il sacrificio per generarlo”. Poi, dopo un lampo di luce verde accecante, la principessa si ritrovò stordita e spaesata davanti alla finestra. Non v’era tracia del corvo e intorno a lei sembrava tutto proseguisse normalmente, come se nessuno a parte lei si fosse accorto di nulla. Una volta ripresasi dal disorientamento, la principessa notò che sul davanzale della finestra c’era qualcosa. Aveva ancora la vista annebbiata, ma appena iniziò a mettere a fuoco, vide che si trattava di una mela. Rossa, lucida, perfetta e invitante. Con le parole udite che ancora le risuonavano nella mente, quasi mossa da una volontà altrui, la giovane prese il frutto, lo portò lentamente alla bocca e lo morse.

E apprese tutto. Capì i meschini piani del padre. Sentì l’egoismo che albergava in lui. Un egoismo di cui era sempre stata consapevole, ma ora lo avvertiva nitidamente dentro di sé, come un qualcosa di marcio e disgustoso. Rivide, con gli occhi del padre la visita del nero viandante, l’arrivo del sovrano del regno vicino e la sua orribile fine. I resti seppelliti in un campo deserto, l’albero e … il corvo sul ramo. Presa dal panico, cominciò a tremare per poi accasciarsi a terra svenuta. Una dama gridò, alcuni servitori si precipitarono in soccorso. Arrivò immediatamente il medico di corte che, dopo una rapida visita, rassicurò tutti sulle condizioni della principessa. “E’ solo un mancamento!” – disse con voce tranquillizzante – “Probabilmente la principessa si è affaticata. Portatela nelle sue stanze e fatela riposare”.

Il re quando aveva sentito il grido era sbiancato, temendo un attacco al castello o (ancor peggio) un attentato contro di lui. Ve n’erano stati in passato di maldestri tentativi da parte di ignobili individui. Ma erano stati tutti sventati e seguiti da rappresaglie indistinte contro il popolo. “Devono capire chi comanda qui!” – andava sostenendo – “Se mordi la mano generosa (e dio sa quanto sono generoso io!), allora questa diventa in pugno di ferro pronto a schiacciarti come il misero insetto che sei!”. Accortosi però che si trattava di un malore della figlia, dapprima tirò un sospiro di sollievo (ci mancava solo un attentato in questo momento!), poi ebbe un moto di stizza. “Ecco che questa qui mi rovina tutto, come al solito” – borbottò – “Debole e inetta come la madre! Stai a vedere che mi rovina il banchetto e, soprattutto, i miei piani”. Vestì il miglior falso sorriso che un ospite potesse indossare e tentò di salvare le sorti della festa, che tanto gli era costata. “Forza! Su! Tranquilli” – , diceva avvicinandosi al capannello di persone che si era creato attorno alla figlia – “Non è niente. La principessa è solo emozionata. La poverina sta sempre (per sua scelta si badi) chiusa nel castello e non le capita spesso di vedere tanta gente tutta insieme. Forza!” – proseguì battendo le mani. “Musica, musica. Portate del vino alla principessa e a tutti quanti!”. L’orchestra reale intonò subito una danza popolare famosissima e fiumi di servitori innaffiarono di vino i boccali degli ospiti, che ripresero il loro chiacchiericcio e le loro danze.

“Fuori di qui menagramo!” – disse al medico, mollandogli un pesante calcio – “E tu tirati su e sforzati di sorridere!” – sussurrò alla figlia – “Non fare come tuo solito. Se mi rovini il ricevimento, giuro che ti rinchiudo nella torre. E stavolta ci resti a vita!”. La principessa, ormai consapevole delle nefandezze del padre, se ne stava lì inebetita a fissarlo. Allora il re chiamò il capo delle guardie. “Accompagna la principessa sul suo scranno” – disse sempre con un falso sorriso sulle labbra e a voce alta per farsi udire da tutti – “Sta benissimo, ma è stanca. Assicurati che si riposi!”. L’uomo, presa sottobraccio la poverina, la condusse dolcemente a sedere e si congedò, con aria mesta. “Almeno da lì la vedranno tutti gli invitati” – pensava fra sé il re. “Speriamo di concludere un bell’accordo matrimoniale!”. Anche se ormai non ne aveva bisogno per allargare i suoi domini al regno vicino, sarebbe stato un peccato sprecare tutto quando aveva investito nel ricevimento. Un buon matrimonio lo avrebbe ulteriormente rafforzato e arricchito. Così finalmente quella inetta avrebbe fatto qualcosa di buono per il padre!

Mentre vagava per la sala perso in questi pensieri, inciampò in qualcosa e per poco non cadde. Vide allora che a terra vi era una bellissima e lucida mela rossa. “Dannata mela!” – borbottò – “Ma perché diavolo non puliscono! Centinaia di servi in giro e devo vedere questo scempio!”. Stava per calciare via il frutto, ma poi si si fermò. Raccolse la mela, le diede una pulita strofinandola sulla manica dell’abito. Era caduta ed era stata anche morsa (un morso piccolo, però). Sarebbe stato uno spreco. “Qui ho pagato tutto io” – diceva come a giustificarsi – “e questa me la mangio io! Sì. È la giusta fine che meriti, dannata mela!”. E così fu che le diede un grosso e sonoro morso. Puah! Era amara. No peggio: marcia. La sputò a terra, incurante degli sguardi degli ospiti. “Ma che schifo! Tanto bella e lucida fuori, quanto disgustosa e rivoltante dentro!” – disse ad alta voce – “Farò spellare vivo il fornit….”- ma non fece in tempo a terminare la frase, perché senti come un fuoco nella bocca. La lingua gli si gonfio fino a dolergli. La sala iniziò a girare vorticosamente. Si sentì mancare e cadde rovinosamente a terra. Udiva il suono ovattato di voci e grida intorno a lui. Poi la sala e la gente iniziò lentamente a dissolversi, fino a che si fece buio. L’ultima cosa che vide prima di morire furono due luci vedi intense.

4. Epilogo

“E la principessa?” – mi chiederete voi. Tranquilli lettori. La principessa, liberatasi dall’oppressione del padre, iniziò a governare con magnanimità e saggezza. Le preghiere dei sudditi erano state finalmente esaudite e nel regno vi fu solo pace e armonia. Conobbe, ai funerali del padre il principe del regno vicino, divenuto re dopo la misteriosa scomparsa del genitore. I due si sposarono e (sì, dobbiamo proprio dirlo) vissero felici e contenti.

Un’ultima cosa, l’albero è ancora lì. Ora il campo su cui è cresciuto non è più desolato. La principessa, inconsapevolmente attratta da quella pianta, vi fece costruire uno splendido giardino, al cui centro fece erigere una statua a memoria del compianto padre del suo amato marito.

Fine