Pubblichiamo per gentile concessione dell’autore “Atali”, omaggio/trasposizione in versi del racconto di R. E. Howard The Frost Giant’s Daughter, facente parte del famoso ciclo di Conan il Cimmero.
“Diciamo che ho utilizzato la prosa del racconto come traccia e che mi sono sforzato di seguire la traccia con scrupolo, ma che, ovviamente, scrivendo in versi metrici ho dovuto (e voluto) accentuare, aggiungere, togliere, trovare soluzioni, eccetera. Ed era appunto questo, il mio scopo: appropriarmi di una storia per cui sentivo affinità, a livello di atmosfera; tradurla (per così dire) in “larcherese”. Al punto che non credo di sbagliare, affermando che, in questa versione poetica, La figlia del Gigante del gelo è, a tutti gli effetti, più mia che di Howard. Per lo meno è la mia speranza.
Al lettore l’ardua sentenza. A me il nudo piacere di aver messo su carta il mio “sentimento” nei confronti di un’opera letteraria che amo”
Fabio Larcher
Il clangore delle spade,
le urla, gli urti echi di tuono
ora tacciono; il silenzio
grava sull’aria e la neve
(lorda e rossa del massacro)
col suo piede senza suono,
col suo piede lieve, lieve.
Mani artigliano, ora, il cielo;
bocche mute ancora invocano,
mute, Ymir, il dio del gelo.
Gli astri fiochi i ghiacci affocano
di spettrali sfavillii.
Le corazze, infrante, bruciano
nel riverbero spietato.
Due guerrieri si fronteggiano,
due superstiti violenti.
Sono entrambi alti, possenti
come tigri. Senza scudo,
cupi, laceri, ammaccati
si avvicinano, armi in pugno.
L’ira affiora su ogni grugno
colmo di sete di lotta.
Uno è privo della barba
ed ha lunghe chiome nere;
mentre i riccioli e la barba
del secondo sono fiere
fiamme. «Dimmi» urla quest’ultimo,
«qual è il tuo nome, ch’io dica
ai miei amici, in Vanaheim,
chi fu l’ultimo a cadere
sotto i colpi di Heïmdul.»
«Non dirai, nel Vanaheim»
gli risponde l’altro, altero,
«ma all’Inferno, che hai incontrato
Conan. Conan il cimmero.»
Heimdul rugge; alza la spada
in un arco micidiale.
Il suo colpo strappa all’elmo
del cimmero aspre scintille,
dal bagliore siderale.
Conan vede rosso; ondeggia
tramortito, ma non cede:
la sua volontà è una scheggia
di vitalità e di fede.
Mentre ondeggia apre un affondo,
che trapassa la corazza
del guerriero rosso e rozzo;
fora ottone, carne e cuore.
Il vanir gli cade morto,
terreo, ai piedi, sbigottito.
Il cimmero si raddrizza.
Assalito, all’improvviso,
da una grande spossatezza,
crolla sui ginocchi. Scaccia,
con fastidio, il buio dagli occhi.
* * *
Una liquida risata
gli risuona nel cervello,
come un limpido coltello.
Piano piano la sua vista
si schiarisce. Osserva il cielo
remotissimo. C’è un velo,
sulla cupola, un bendaggio
diafano, di luce un ricciolo,
che lo fa apparire piccolo.
C’è qualcosa, nel paesaggio,
che gli appare strano, onirico.
Non sa come definire
cosa sia quel lampo pirico,
che lo abbaglia; ma non pensa
tuttavia, a tali questioni,
per un tempo molto lungo:
c’è una donna che gli ancheggia,
nuda, innanzi agli occhi; ha i piedi
scalzi, bianchi, molto lievi
ed un velo le ricopre,
faticosamente, il corpo,
come se fosse tessuto
di pulviscolo ghiacciato.
«Chi sei, tu? da dove vieni?»
le domanda, sbalordito,
Conan. «Cosa te ne importa?»
ella, fredda, lo schernisce
(ha una voce melodiosa
ma crudele, che ferisce).
«Chiama i tuoi uomini, avanti!»
Conan sfida il suo sorriso
di lussuria e scherno intriso.
«Anche se sono allo stremo,
non mi avranno vivo. Vedo
che sei figlia dei vanir.»
«Non ho affatto detto questo»
ella dice, seria. Conan
guarda meglio: i suoi capelli
scarmigliati, d’oro crespo,
tumultuosi, variegati,
dai riflessi aurei, cangianti,
né dorati né ramati,
come quelli delle fate,
figlie dell’eterna estate,
sono lunghi oltre la vita.
Le sue rosse labbra turgide
gli sorridono e dai piedi
all’abbagliante cascata
dei capelli, appare bella
come un sogno degli dèi.
«Non so dire se tu sia»
dice il barbaro, «dei vani
(dunque mia nemica), o agli asi
(miei compagni) tu appartenga.
Non ho mai veduto (mai!)
una donna del tuo stampo.
Per Ymir…» «Non imprecare»
lo rimprovera l’estranea,
presa da ira subitanea,
«per il Padre della Neve.
Che ne sai tu, della neve
e del ghiaccio? Sei straniero
nella terra dominata
dai Giganti della Brina.»
«Per gli dèi della mia razza!
Ora scoltami, ragazza»
urla lui, furioso. «forse
non avrò i capelli gialli
come un biondo aesir, ma credo
che nessun migliore aedo
della spada troveresti.
Oggi ho visto un centinaio
di guerrieri uccisi e io solo
sono vivo. Dimmi, donna,
hai veduto il lampo argenteo
delle cotte sulla neve?
Hai sentito uomini in arme
che avanzavano sul ghiaccio?»
«Ho veduto luccicare»
ella replica, «la brina
sotto il sole. Ho udito il vento
bisbigliare sulle cime.»
Conan scuote il capo. «Portami
dalla tua tribù. È impossibile,
(questa terra buia è invivibile)
che tu venga da lontano,
nuda e scalza. Sono troppo,
troppo stanco.» «Il mio villaggio
è al di là del tuo coraggio;
più lontano mai di quanto
tu potresti camminare,
Conan di Cimmeria» dice
la ragazza e apre le braccia,
ondeggiando sensualmente
la sua bella testa d’oro.
«Dimmi, avanti: sono bella?»
«Come l’alba mentre, nuda,
corre sulla neve» replica
il cimmero, traboccando
di passione. «Allora, prendimi!»
lo punzecchia la ragazza.
«Quale forte guerrïero
può giacere, qui, ai miei piedi?
Resta lì, a morire. Muori
come gli altri idioti, al freddo,
Conan dai capelli neri.
Non potresti mai seguirmi,
dove io vorrei condurti.»
Il cimmero, bestemmiando,
si alza in piedi, cupo in viso,
senza l’ombra di un sorriso.
L’ira gli scuote la mente
(è un sonaglio di serpente);
la passione fa pulsare
le sue tempie, come il mare.
Mette via la spada e grida,
balza addosso alla sua preda,
con le mani aperte, a artiglio;
ma ella ride e, con un guizzo
del suo bel labbro vermiglio,
sguscia via dalla sua presa.
Corre. È già lontana. E ride.
Già la lontananza elide
le sue forme: è nebbia gialla.
Volge il capo, oltre la spalla,
per vedere se la insegue
il guerriero torvo. Conan
corre; ha già dimenticato
i guerrieri morti, il campo
di battaglia, il sangue sparso.
Pensa solo alla figura
bianca ed esile, che corre
sulla neve, sempre un passo
oltre le sue mani tese.
«Non mi puoi sfuggire» tuona.
«Se mi condurrai a una trappola,
accumulerò le teste
della tua gente ai tuoi piedi.
Farò a pezzi le montagne,
per ghermirti. Se dovrò,
correrò fino all’Inferno!»
Il cimmero schiuma, mentre
la risata sconvolgente
della donna istiga e umilia
il suo desiderio ardente.
Il terreno cambia in fretta:
l’ampia landa si fa stretta;
il deserto piano cede
a catene di colline
frastagliate. A nord si scorgono
alte cime che si arrossano
nella luce del tramonto.
Nella volta, adesso, crepita
una serie di astri ignoti.
Strane luci si susseguono
in un lugubre balletto,
sulla testa del guerriero.
Il riverbero spettrale
della neve ha odor di sogno;
sembra un sogno ogni dettaglio
di quel buio regno mutevole.
Solo la donna cedevole
sembra solida; essa danza
sopra il ghiaccio, ma a distanza.
Conan ostinatamente
sempre più si addentra in mezzo
a quel luogo ostile ed algido,
a quel labirinto vitreo.
Non lo turba la stranezza
delle cose e non si turba
neanche quando due figure
gigantesche, all’improvviso,
come apparse dalla terra,
gli impediscono il cammino,
cinte in abiti da guerra.
Hanno cotte d’oro, pallide
di galverna; barbe squallide,
incrostate dalla neve;
armi sporche di ghiaccioli.
«O fratelli!» esclama lei,
mentre danza fra i giganti.
«Osservate chi mi insegue.
Vi portai un uomo da uccidere.
Uccidetelo! Prendete
il suo cuore palpitante,
e mettiamolo sul tavolo
del signore nostro padre.»
I giganti le rispondono
con boati simili ad iceberg.
Alzano le scuri al cielo,
scintillanti al tetro argento
delle stelle aliene, mentre
infuriato Conan corre
verso i due nemici. Attacca.
Una lama gli lampeggia
(di una gibigianna scheggia)
innanzi agli occhi e egli reagisce:
mena un colpo formidabile
alla gamba di un colosso:
sprizza forte, il sangue rosso,
dalle arterie e vene aperte.
Crolla. Ma anche Conan cade,
come un sasso fiacco, inerte:
il secondo lo ha colpito
con l’amara scure, al braccio,
ma di striscio. Sente il braccio
insensibile per l’urto,
ma è fallito il fiero furto
della vita: è ancora vivo.
L’ha salvato la corazza
che ha forgiato un fabbro estivo.
Ora l’avversario enorme
giganteggia controluce,
come una montagna informe;
alza l’ascia. L’uomo rotola
nella neve; si alza in fretta.
Il gigante estrae, a fatica,
l’arma dalla terra dura;
ma, in quel mentre (come un fulmine)
Conan cala un gran fendente
e il gigante crolla al suolo,
soffocando nel suo sangue.
Conan si gira di scatto:
vede la fanciulla d’oro
che, sgomenta, orripilata,
resta immobile a fissarlo,
senza più traccia di scherno
sulle labbra d’alba e Inferno.
Il cimmero urla, selvaggio:
«Cosa aspetti, su, coraggio.
Chiama gli altri tuoi fratelli!
Darò il loro cuore ai lupi.
Oramai non puoi sfuggirmi.»
Con un grido di terrore,
ella scappa via, veloce,
spaventata. Conan scatta,
ma, per quanto tenda i nervi,
schianti i tendini ed i muscoli,
la ragazza si allontana
sempre più, rimpicciolendo,
nelle fiamme del bizzarro
cielo di quel mondo arcano.
Conan non si arrende e, cupo,
la rincorre, resistendo
fieramente al collasso.
Lentamente, a passo a passo,
la distanza si riduce.
Conan già può udire chiaro
il respiro irto d’affanno
della donna; già può cogliere
nel suo sguardo lampi verdi
di terrore. Con un urlo
disumano, il cimmero
la ghermisce e se la stringe
contro il petto. Getta l’arma
nella neve. Ella combatte,
si contorce inutilmente
(molle femmina di latte,
tra le sue braccia di ferro).
Egli ha un mostro nella mente:
più ella struscia il suo bel corpo,
più egli brucia di lussuria,
più vorrebbe farle ingiuria.
I capelli della donna
lo colpiscono sugli occhi,
luminosi come fiocchi,
accecandolo. Egli affonda
le sue dita nella monda
carne bianca morbidissima
e la trova fredda e liscia,
come il ghiaccio. Sembra un essere
fatto di ghiaccio e di fiamme.
«Tu sei fredda» dice Conan,
«ma ti scalderò col sole
del mio sangue.» Con un urlo
e uno sforzo disperati,
lei si libera, lasciandogli
tra le grinfie il velo ambiguo.
Scatta indietro e gli si para
proprio in fronte, scarmigliata,
con il bianco petto ansante,
gli occhi immensi di terrore.
Il cimmero la contempla,
sbalordito dal suo corpo,
dalla sua bellezza nuda
(la terribile bellezza!)
sulla neve. La ragazza
alza ambe le braccia al cielo
e, con voce disumana,
grida: «Padre Ymir, ti prego,
salva me!» Il cimmero, attonito,
vede il cielo andare in pezzi
a quel disperato monito;
tutto il cielo esplode in stelle
diacce. La fanciulla è avvolta
da una fredda luce e sciolta,
così forte che il cimmero
è costretto a ripararsi
gli occhi, con le braccia tese.
Per un breve istante il mondo
è inondato da fulgori
crepitanti, dardi azzurri,
lampi cremisi. Poi il barbaro
caracolla, emette un grido.
La fanciulla, ora, è scomparsa,
come se il fuoco l’abbia arsa.
Si ode un rombo, simile a un carro
da battaglia, i cui destrieri
fanno sprigionare lampi
dalla neve, echi dai cieli.
Poi: l’aurora, le colline…
tutto ondeggia nella mente
del cimmero come il moto
di una frusta, di un serpente.
Tutto il mondo si solleva,
come un’onda e l’uomo sviene.
* * *
In un freddo, tetro mondo,
il cui sole sembra estinto,
Conan sente il movimento
delle vita. «Ora rinviene»
dice un uomo. «Fate presto:
strofinategli le membra,
se no non sarà più destro
a brandire un arma. Usate
tutt’e due le mani. In fretta!»
Conan apre gli occhi e fissa
i barbuti visi, chini,
su di lui. «Sei vivo, amico.»
«Crom e Niord!» dice il cimmero.
«Sono vivo o siamo tutti
nel Valhalla?» «Siamo vivi»
lo assicura l’altro. «Quando
siamo giunti al luogo atroce
del massacro, tu non c’eri.
Per Ymir, perché hai vagato
ore in queste lande nordiche?»
«I vanir ci hanno aggredito»
spiega Conan. «Sono il solo
che è scampato. Ero intontito.
Il deserto si estendeva
tutt’intorno, come un sogno.
Poi è arrivata la ragazza
e ha iniziato a provocarmi.
Era bella come il fuoco
dell’Inferno. Una follia
mi ha accecato e l’ho seguita,
incurante della vita,
come un uomo quando dorme.
Non avete visto le orme
dei suoi piedi o i due giganti
che ho abbattuto con tempesta?»
Gli altri scuotono la testa.
«Nella neve abbiamo scorto
solo, Conan, le tue impronte.»
«Forse, allora, sono pazzo.»
«Niente affatto!» dice un uomo
vecchio, dallo sguardo strano.
«Era Atali. Atali, figlia
del Gigante della Brina.
Ella arriva sopra i campi
di battaglia, fra i cadaveri,
e i feriti incanta e adesca.
Li conduce a morte certa,
nella landa più deserta,
nelle braccia dei suoi simili,
come un olocausto umano
a suo padre, Ymir del gelo.»
«Gorm è un po’ toccato in testa»
dice un biondo aesir. «Di certo
hai seguito solo un sogno.
Era un’allucinazione.
Tu sei solo un forestiero,
non conosci Atali. Pensaci!»
«Forse, amico, dici il vero.»
Il cimmero è pensieroso.
«Era tutto molto strano;
strano e magico… Per Crom!»
Si interrompe e fissa attonito
ciò che stringe nella mano:
una nuvola di velo
mai tessuta da arte umana.
Fabio Larcher