Atali

di Fabio Larcher

tratto da Tre poemi

editore: Kraken Edizioni

Data di Pubblicazione: marzo 2021

 

 

Pubblichiamo per gentile concessione dell’autore “Atali”, omaggio/trasposizione in versi del racconto di R. E. Howard The Frost Giant’s Daughter, facente parte del famoso ciclo di Conan il Cimmero.

“Diciamo che ho utilizzato la prosa del racconto come traccia e che mi sono sforzato di seguire la traccia con scrupolo, ma che, ovviamente, scrivendo in versi metrici ho dovuto (e voluto) accentuare, aggiungere, togliere, trovare soluzioni, eccetera. Ed era appunto questo, il mio scopo: appropriarmi di una storia per cui sentivo affinità, a livello di atmosfera; tradurla (per così dire) in “larcherese”. Al punto che non credo di sbagliare, affermando che, in questa versione poetica, La figlia del Gigante del gelo è, a tutti gli effetti, più mia che di Howard. Per lo meno è la mia speranza.
Al lettore l’ardua sentenza. A me il nudo piacere di aver messo su carta il mio “sentimento” nei confronti di un’opera letteraria che amo”

Fabio Larcher

Il clangore delle spade,

le urla, gli urti echi di tuono

ora tacciono; il silenzio

grava sull’aria e la neve

(lorda e rossa del massacro)

col suo piede senza suono,

col suo piede lieve, lieve.

Mani artigliano, ora, il cielo;

bocche mute ancora invocano,

mute, Ymir, il dio del gelo.

Gli astri fiochi i ghiacci affocano

di spettrali sfavillii.

Le corazze, infrante, bruciano

nel riverbero spietato.

Due guerrieri si fronteggiano,

due superstiti violenti.

Sono entrambi alti, possenti

come tigri. Senza scudo,

cupi, laceri, ammaccati

si avvicinano, armi in pugno.

L’ira affiora su ogni grugno

colmo di sete di lotta.

Uno è privo della barba

ed ha lunghe chiome nere;

mentre i riccioli e la barba

del secondo sono fiere

fiamme. «Dimmi» urla quest’ultimo,

«qual è il tuo nome, ch’io dica

ai miei amici, in Vanaheim,

chi fu l’ultimo a cadere

sotto i colpi di Heïmdul.»

«Non dirai, nel Vanaheim»

gli risponde l’altro, altero,

«ma all’Inferno, che hai incontrato

Conan. Conan il cimmero.»

Heimdul rugge; alza la spada

in un arco micidiale.

Il suo colpo strappa all’elmo

del cimmero aspre scintille,

dal bagliore siderale.

Conan vede rosso; ondeggia

tramortito, ma non cede:

la sua volontà è una scheggia

di vitalità e di fede.

Mentre ondeggia apre un affondo,

che trapassa la corazza

del guerriero rosso e rozzo;

fora ottone, carne e cuore.

Il vanir gli cade morto,

terreo, ai piedi, sbigottito.

Il cimmero si raddrizza.

Assalito, all’improvviso,

da una grande spossatezza,

crolla sui ginocchi. Scaccia,

con fastidio, il buio dagli occhi.

* * *

Una liquida risata

gli risuona nel cervello,

come un limpido coltello.

Piano piano la sua vista

si schiarisce. Osserva il cielo

remotissimo. C’è un velo,

sulla cupola, un bendaggio

diafano, di luce un ricciolo,

che lo fa apparire piccolo.

C’è qualcosa, nel paesaggio,

che gli appare strano, onirico.

Non sa come definire

cosa sia quel lampo pirico,

che lo abbaglia; ma non pensa

tuttavia, a tali questioni,

per un tempo molto lungo:

c’è una donna che gli ancheggia,

nuda, innanzi agli occhi; ha i piedi

scalzi, bianchi, molto lievi

ed un velo le ricopre,

faticosamente, il corpo,

come se fosse tessuto

di pulviscolo ghiacciato.

«Chi sei, tu? da dove vieni?»

le domanda, sbalordito,

Conan. «Cosa te ne importa?»

ella, fredda, lo schernisce

(ha una voce melodiosa

ma crudele, che ferisce).

«Chiama i tuoi uomini, avanti!»

Conan sfida il suo sorriso

di lussuria e scherno intriso.

«Anche se sono allo stremo,

non mi avranno vivo. Vedo

che sei figlia dei vanir.»

«Non ho affatto detto questo»

ella dice, seria. Conan

guarda meglio: i suoi capelli

scarmigliati, d’oro crespo,

tumultuosi, variegati,

dai riflessi aurei, cangianti,

né dorati né ramati,

come quelli delle fate,

figlie dell’eterna estate,

sono lunghi oltre la vita.

Le sue rosse labbra turgide

gli sorridono e dai piedi

all’abbagliante cascata

dei capelli, appare bella

come un sogno degli dèi.

«Non so dire se tu sia»

dice il barbaro, «dei vani

(dunque mia nemica), o agli asi

(miei compagni) tu appartenga.

Non ho mai veduto (mai!)

una donna del tuo stampo.

Per Ymir…» «Non imprecare»

lo rimprovera l’estranea,

presa da ira subitanea,

«per il Padre della Neve.

Che ne sai tu, della neve

e del ghiaccio? Sei straniero

nella terra dominata

dai Giganti della Brina.»

«Per gli dèi della mia razza!

Ora scoltami, ragazza»

urla lui, furioso. «forse

non avrò i capelli gialli

come un biondo aesir, ma credo

che nessun migliore aedo

della spada troveresti.

Oggi ho visto un centinaio

di guerrieri uccisi e io solo

sono vivo. Dimmi, donna,

hai veduto il lampo argenteo

delle cotte sulla neve?

Hai sentito uomini in arme

che avanzavano sul ghiaccio?»

«Ho veduto luccicare»

ella replica, «la brina

sotto il sole. Ho udito il vento

bisbigliare sulle cime.»

Conan scuote il capo. «Portami

dalla tua tribù. È impossibile,

(questa terra buia è invivibile)

che tu venga da lontano,

nuda e scalza. Sono troppo,

troppo stanco.» «Il mio villaggio

è al di là del tuo coraggio;

più lontano mai di quanto

tu potresti camminare,

Conan di Cimmeria» dice

la ragazza e apre le braccia,

ondeggiando sensualmente

la sua bella testa d’oro.

«Dimmi, avanti: sono bella?»

«Come l’alba mentre, nuda,

corre sulla neve» replica

il cimmero, traboccando

di passione. «Allora, prendimi!»

lo punzecchia la ragazza.

«Quale forte guerrïero

può giacere, qui, ai miei piedi?

Resta lì, a morire. Muori

come gli altri idioti, al freddo,

Conan dai capelli neri.

Non potresti mai seguirmi,

dove io vorrei condurti.»

Il cimmero, bestemmiando,

si alza in piedi, cupo in viso,

senza l’ombra di un sorriso.

L’ira gli scuote la mente

(è un sonaglio di serpente);

la passione fa pulsare

le sue tempie, come il mare.

Mette via la spada e grida,

balza addosso alla sua preda,

con le mani aperte, a artiglio;

ma ella ride e, con un guizzo

del suo bel labbro vermiglio,

sguscia via dalla sua presa.

Corre. È già lontana. E ride.

Già la lontananza elide

le sue forme: è nebbia gialla.

Volge il capo, oltre la spalla,

per vedere se la insegue

il guerriero torvo. Conan

corre; ha già dimenticato

i guerrieri morti, il campo

di battaglia, il sangue sparso.

Pensa solo alla figura

bianca ed esile, che corre

sulla neve, sempre un passo

oltre le sue mani tese.

«Non mi puoi sfuggire» tuona.

«Se mi condurrai a una trappola,

accumulerò le teste

della tua gente ai tuoi piedi.

Farò a pezzi le montagne,

per ghermirti. Se dovrò,

correrò fino all’Inferno!»

Il cimmero schiuma, mentre

la risata sconvolgente

della donna istiga e umilia

il suo desiderio ardente.

Il terreno cambia in fretta:

l’ampia landa si fa stretta;

il deserto piano cede

a catene di colline

frastagliate. A nord si scorgono

alte cime che si arrossano

nella luce del tramonto.

Nella volta, adesso, crepita

una serie di astri ignoti.

Strane luci si susseguono

in un lugubre balletto,

sulla testa del guerriero.

Il riverbero spettrale

della neve ha odor di sogno;

sembra un sogno ogni dettaglio

di quel buio regno mutevole.

Solo la donna cedevole

sembra solida; essa danza

sopra il ghiaccio, ma a distanza.

Conan ostinatamente

sempre più si addentra in mezzo

a quel luogo ostile ed algido,

a quel labirinto vitreo.

Non lo turba la stranezza

delle cose e non si turba

neanche quando due figure

gigantesche, all’improvviso,

come apparse dalla terra,

gli impediscono il cammino,

cinte in abiti da guerra.

Hanno cotte d’oro, pallide

di galverna; barbe squallide,

incrostate dalla neve;

armi sporche di ghiaccioli.

«O fratelli!» esclama lei,

mentre danza fra i giganti.

«Osservate chi mi insegue.

Vi portai un uomo da uccidere.

Uccidetelo! Prendete

il suo cuore palpitante,

e mettiamolo sul tavolo

del signore nostro padre.»

I giganti le rispondono

con boati simili ad iceberg.

Alzano le scuri al cielo,

scintillanti al tetro argento

delle stelle aliene, mentre

infuriato Conan corre

verso i due nemici. Attacca.

Una lama gli lampeggia

(di una gibigianna scheggia)

innanzi agli occhi e egli reagisce:

mena un colpo formidabile

alla gamba di un colosso:

sprizza forte, il sangue rosso,

dalle arterie e vene aperte.

Crolla. Ma anche Conan cade,

come un sasso fiacco, inerte:

il secondo lo ha colpito

con l’amara scure, al braccio,

ma di striscio. Sente il braccio

insensibile per l’urto,

ma è fallito il fiero furto

della vita: è ancora vivo.

L’ha salvato la corazza

che ha forgiato un fabbro estivo.

Ora l’avversario enorme

giganteggia controluce,

come una montagna informe;

alza l’ascia. L’uomo rotola

nella neve; si alza in fretta.

Il gigante estrae, a fatica,

l’arma dalla terra dura;

ma, in quel mentre (come un fulmine)

Conan cala un gran fendente

e il gigante crolla al suolo,

soffocando nel suo sangue.

Conan si gira di scatto:

vede la fanciulla d’oro

che, sgomenta, orripilata,

resta immobile a fissarlo,

senza più traccia di scherno

sulle labbra d’alba e Inferno.

Il cimmero urla, selvaggio:

«Cosa aspetti, su, coraggio.

Chiama gli altri tuoi fratelli!

Darò il loro cuore ai lupi.

Oramai non puoi sfuggirmi.»

Con un grido di terrore,

ella scappa via, veloce,

spaventata. Conan scatta,

ma, per quanto tenda i nervi,

schianti i tendini ed i muscoli,

la ragazza si allontana

sempre più, rimpicciolendo,

nelle fiamme del bizzarro

cielo di quel mondo arcano.

Conan non si arrende e, cupo,

la rincorre, resistendo

fieramente al collasso.

Lentamente, a passo a passo,

la distanza si riduce.

Conan già può udire chiaro

il respiro irto d’affanno

della donna; già può cogliere

nel suo sguardo lampi verdi

di terrore. Con un urlo

disumano, il cimmero

la ghermisce e se la stringe

contro il petto. Getta l’arma

nella neve. Ella combatte,

si contorce inutilmente

(molle femmina di latte,

tra le sue braccia di ferro).

Egli ha un mostro nella mente:

più ella struscia il suo bel corpo,

più egli brucia di lussuria,

più vorrebbe farle ingiuria.

I capelli della donna

lo colpiscono sugli occhi,

luminosi come fiocchi,

accecandolo. Egli affonda

le sue dita nella monda

carne bianca morbidissima

e la trova fredda e liscia,

come il ghiaccio. Sembra un essere

fatto di ghiaccio e di fiamme.

«Tu sei fredda» dice Conan,

«ma ti scalderò col sole

del mio sangue.» Con un urlo

e uno sforzo disperati,

lei si libera, lasciandogli

tra le grinfie il velo ambiguo.

Scatta indietro e gli si para

proprio in fronte, scarmigliata,

con il bianco petto ansante,

gli occhi immensi di terrore.

Il cimmero la contempla,

sbalordito dal suo corpo,

dalla sua bellezza nuda

(la terribile bellezza!)

sulla neve. La ragazza

alza ambe le braccia al cielo

e, con voce disumana,

grida: «Padre Ymir, ti prego,

salva me!» Il cimmero, attonito,

vede il cielo andare in pezzi

a quel disperato monito;

tutto il cielo esplode in stelle

diacce. La fanciulla è avvolta

da una fredda luce e sciolta,

così forte che il cimmero

è costretto a ripararsi

gli occhi, con le braccia tese.

Per un breve istante il mondo

è inondato da fulgori

crepitanti, dardi azzurri,

lampi cremisi. Poi il barbaro

caracolla, emette un grido.

La fanciulla, ora, è scomparsa,

come se il fuoco l’abbia arsa.

Si ode un rombo, simile a un carro

da battaglia, i cui destrieri

fanno sprigionare lampi

dalla neve, echi dai cieli.

Poi: l’aurora, le colline…

tutto ondeggia nella mente

del cimmero come il moto

di una frusta, di un serpente.

Tutto il mondo si solleva,

come un’onda e l’uomo sviene.

* * *

In un freddo, tetro mondo,

il cui sole sembra estinto,

Conan sente il movimento

delle vita. «Ora rinviene»

dice un uomo. «Fate presto:

strofinategli le membra,

se no non sarà più destro

a brandire un arma. Usate

tutt’e due le mani. In fretta!»

Conan apre gli occhi e fissa

i barbuti visi, chini,

su di lui. «Sei vivo, amico.»

«Crom e Niord!» dice il cimmero.

«Sono vivo o siamo tutti

nel Valhalla?» «Siamo vivi»

lo assicura l’altro. «Quando

siamo giunti al luogo atroce

del massacro, tu non c’eri.

Per Ymir, perché hai vagato

ore in queste lande nordiche?»

«I vanir ci hanno aggredito»

spiega Conan. «Sono il solo

che è scampato. Ero intontito.

Il deserto si estendeva

tutt’intorno, come un sogno.

Poi è arrivata la ragazza

e ha iniziato a provocarmi.

Era bella come il fuoco

dell’Inferno. Una follia

mi ha accecato e l’ho seguita,

incurante della vita,

come un uomo quando dorme.

Non avete visto le orme

dei suoi piedi o i due giganti

che ho abbattuto con tempesta?»

Gli altri scuotono la testa.

«Nella neve abbiamo scorto

solo, Conan, le tue impronte.»

«Forse, allora, sono pazzo.»

«Niente affatto!» dice un uomo

vecchio, dallo sguardo strano.

«Era Atali. Atali, figlia

del Gigante della Brina.

Ella arriva sopra i campi

di battaglia, fra i cadaveri,

e i feriti incanta e adesca.

Li conduce a morte certa,

nella landa più deserta,

nelle braccia dei suoi simili,

come un olocausto umano

a suo padre, Ymir del gelo.»

«Gorm è un po’ toccato in testa»

dice un biondo aesir. «Di certo

hai seguito solo un sogno.

Era un’allucinazione.

Tu sei solo un forestiero,

non conosci Atali. Pensaci!»

«Forse, amico, dici il vero.»

Il cimmero è pensieroso.

«Era tutto molto strano;

strano e magico… Per Crom!»

Si interrompe e fissa attonito

ciò che stringe nella mano:

una nuvola di velo

mai tessuta da arte umana.

 

Fabio Larcher